Il fuoco di Niki Lauda
Erano passati solo 42 giorni dall’incidente clamoroso e devastante che Niki Lauda aveva avuto il primo agosto 1976 sul terribile circuito del Nürburgring, l’inferno verde in Germania, dove era stato tirato fuori dalle fiamme per audace miracolo dal collega Arturo Merzario.
Quarantadue giorni in cui il pilota aveva lottato con le ustioni e aveva respirato fuoco, a detta dei medici, per i postumi dell’incendio della macchina, uscendone con i polmoni devastati per sempre. Con il volto sfigurato dalle ustioni e un cappellino rosso che sarebbe divenuto il suo marchio di sopravvissuto, quel 12 settembre 1976 Niki corse il Gran Premio d’Italia a Monza in condizioni estreme, con il casco modificato per cercare di non sfregare troppo le ferite ancora gonfie e sanguinanti. Con due rigagnoli rossi che colavano lenti dai lati del volto, sotto la visiera, lungo il collo, inzuppando il sottotuta bianco, come ha ricordato l’amico Luca Cordero di Montezemolo, allora giovane direttore sportivo della Ferrari. «Per guidare una monoposto non serve la faccia: serve il piede destro, quello dell’acceleratore…», tagliò corto lui, Lauda, abituato a parlar crudo e chiaro. E arrivò fino in fondo, quarto, nel tentativo di recuperare punti al suo gran rivale, James Hunt.
Niki Lauda era così, un combattente della pista, pilota tosto e uomo che pur essendo potenzialmente nato nella bambagia, aveva cominciato a lottare presto per realizzare il suo sogno: guidare un’auto da corsa, incurante del contesto: i suoi erano banchieri di alta gamma a Vienna, dove Andreas Nikolaus era nato, e prevedevano per lui un futuro in linea col destino di famiglia. Lui però non si sentiva figlio di papà e voleva correre, voleva fare da solo, e ancora ragazzo litigò con il