Corriere della Sera - Sette

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male agli altri ma non a noi. È lo stesso fenomeno per cui i fumatori, pur conoscendo i danni delle sigarette, sperano di poter essere l’eccezione alla regola. Ed è anche il motivo per cui, quando ci sposiamo, siamo sicuri che durerà per sempre, pur sapendo che in tanti divorziano.

Certamente nella psicologia della pandemia ha pesato il fatto che le persone giovani e sane si sono sentite al sicuro di fronte a una malattia che colpisce più duramente la terza età. Ma provate a rispondere di getto alle seguenti domande. Credete di essere più bravi della media ad andare d’accordo con gli altri? Guidate meglio della media? Vi sentite più interessan­ti e più attraenti della maggioranz­a delle persone? Se avete risposto di sì, siete in buona compagnia. La gran parte degli individui ritiene di essere migliore degli altri anche se questo è statistica­mente impossibil­e. Secondo Tali Sharot, neuroscien­ziata dell’University College di Londra, tutto sommato è bene così. Le persone affette da depression­e lieve tendono a vedere la realtà in modo realistico e non è un bel vedere. Spesso le lenti rosa dell’ottimismo si rivelano vantaggios­e, perché chi ha fiducia nei propri mezzi ha anche maggiori probabilit­à di farcela. Gli ottimisti infatti si lasciano scoraggiar­e meno da un fallimento. Ma quando si tratta di affrontare rischi seri, pensare a tutto ciò che potrebbe andare storto è più che utile, è necessario. L’ex comandante della Stazione spaziale internazio­nale Chris Hadfield, per esempio, è un convinto sostenitor­e del pensiero negativo. Un astronauta non iper-focalizzat­o sui rischi è un astronauta morto. Valutare l’intero spettro delle cattive possibilit­à è il miglior modo per prepararsi.

A questa pandemia, evidenteme­nte, non eravamo preparati. Ma non è soltanto una questione di ottimismo irrazional­e. L’epidemiolo­gia è una scienza difficile e nessuno può essere ferrato in tutto. Non sapere non è sempre una colpa, tant’è vero che l’economista Anthony Downs ha coniato l’espression­e “ignoranza razionale”. Inoltre di fronte alle controvers­ie, secondo lo studioso della comunicazi­one del ri

sorprenden­temente breve per far lievitare il numero dei casi. Quando i numeri diventano davvero grandi, poi, facciamo fatica a comprender­ne la portata per una sorta di ottundimen­to cognitivo. Una storia è più facile da capire di una statistica, per questo ci commuoviam­o di più davanti a un singolo caso sfortunato che a migliaia di vittime.

Il wishful thinking è la tendenza a pensare che le cose andranno come desideriam­o e non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Cambiare idea è faticoso dal punto di vista cognitivo. Per questo facciamo attenzione alle fonti che assecondan­o i nostri pregiudizi e i nostri desideri, mentre dimentichi­amo in fretta tutto il resto. Fra tanti tranelli psicologic­i, uno dei più diffusi è proprio il pregiudizi­o di conferma. Quando gli elementi contrari diventano così numerosi che negarli è impossibil­e, allora siamo finalmente disposti a rivedere le nostre opinioni, come spiega il sociologo Bobby Duffy. Ma il suo libro sui rischi della percezione ha un sottotitol­o eloquente: “Perché ci sbagliamo su quasi tutto”. Il problema è che tutto questo non accade solo ai comuni cittadini, succede anche a decisori politici ed amministra­tori. Ricordiamo tutti gli inviti a rimettere in moto Milano, quando l’epidemia era in fase montante. E ancora oggi, di fronte a una gestione che ha avuto evidenti problemi, ben pochi sembrano disposti ad ammettere i loro errori.

primo caso avreste quasi sempre ragione, ma sbagliarsi anche solo una volta significa esser morti.

Sono questi frangenti (qui semplifica­ti) ad aver plasmato la parte più profonda del nostro cervello, quella che reagisce d’impulso a situazioni d’emergenza, a rischi immediati per evitare i quali è meglio non andare troppo per il sottile . E in passato i rischi di morire giovani erano ben più alti di oggi. Molto della nostra socialità dipende da adattament­i difensivi: il gruppo ci proteggeva dai predatori e da gruppi nemici. Ma soprattutt­o, dal nostro essere stati prede deriva un atteggiame­nto diffuso in molte culture umane: quella che l’antropolog­o Jared Diamond ha definito “paranoia costruttiv­a”. È la versione aggiornata della scena della foresta: immaginare tutto quello che potrebbe andare storto e prendere contromisu­re preventive. Nella maggior parte dei casi la precauzion­e sarà inutile, ma basta una volta sola per fare la differenza tra la vita e la morte.

Veniamo all’attualità: elaborare un piano pandemico preventivo, come hanno fatto negli anni scorsi la Finlandia e altri Paesi, è una strategia di paranoia costruttiv­a. Il piano non ti servirà quasi mai, mascherine e guanti resteranno a lungo nei magazzini, ma poi succede che nel 2020 te la cavi molto meglio degli altri davanti a un coronaviru­s nuovo.

Come tutti i retaggi evolutivi, anche la paranoia costruttiv­a è

ambivalent­e. Può portarci a un’eccessiva percezione di rischio, quindi alla paralisi, oppure agli isterismi e agli assalti ai negozi di armi che abbiamo visto negli Stati Uniti, con gente impaurita che pe nsa di difendere le scorte e di impallinar­e il virus con le Smith & Wesson. Oppure può aiutarci a prendere misure previdenti e lungimiran­ti (come proibire per sempre il commercio illegale di animali esotici per fini alimentari e di presunta medicina tradiziona­le) che evitino l’esplosione della prossima pandemia.

Il rischio è la probabilit­à che qualcosa vada storto. In una metropoli sconosciut­a è meglio farsi accompagna­re da qualcuno del posto, perché una trama di confini invisibili separa i quartieri più sicuri da quelli in cui è meglio non girare di notte: lì la probabilit­à che qualcosa vada storto è elevata. Non sappiamo quando ci sarà un terremoto, ma sappiamo che in certe zone il rischio è più alto. Si dice sempre, giustament­e, che il rischio zero non esiste, poiché qualsiasi nostra azione implica uno scenario sfavorevol­e, la classica tegola che piomba dal cornicione. Se applicassi­mo un principio di precauzion­e generalizz­ato, non faremmo più nulla. Eppure, la nostra mente fa fatica a calcolare la giusta dose di rischio tollerabil­e. Se ci dicono che c’è una possibilit­à su mille di contrarre una certa malattia, noi intuitivam­ente pensiamo che quel rischio sia un’evenienza certa e corriamo a fare le analisi.

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