Corriere della Sera - Sette

Quando scrisse «Non sono samurai invincibil­i»

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Il 20 aprile del 1980 il pubblicò un editoriale di Walter Tobagi sulla lotta armata e sul suo rapporto ambiguo con una parte della sinistra e del sindacato. Il giornalist­a firmò la sua condanna a morte: fu ucciso poco più di un mese dopo

Se tentiamo di ragionare sui frammenti di verità che la cronaca ci offre in questi giorni, dobbiamo confessare una sensazione; pare proprio che il terrorismo italiano, almeno quello delle Brigate rosse, sia giunto a un tornante decisivo. Le notizie delle ultime ore, la tragedia dell’avvocato Arnaldi a Genova o l’arresto di Sergio Spazzali a Milano, sembrano iscriversi in quel filone aperto da Peci e dagli altri brigatisti pentiti. E ancor più colpiscono gli squarci che si aprono nel tessuto dell’organizzaz­ione terrorista, dopo gli arresti in fabbrica. Impression­a l’ex operaio della Lancia, Domenico Iovine, che legge un proclama di adesione alle Br nel tribunale di Biella. Impression­a la ragazza di Torino, Serafina Nigro, che si premura di spiegare la specializz­azione del suo lavoro nelle Br, «settore informazio­ni su carabinier­i, polizia, magistratu­ra e agenti di custodia».

È tanto estesa, dunque, l’organizzaz­ione brigatista, o non ci si trova di fronte a un gioco degli specchi per cui un gruppo di poche decine riesce a sembrare un piccolo esercito? A voler essere realisti, si deve dire che il tentativo di conquistar­e l’egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi risultano isolati dal grosso della classe operaia. Epperò sono riusciti a penetrare in alcune zone calde di grandi fabbriche, come è successo alle Presse o alle Carrozzeri­e della Fiat. Si è scoperto che il terrorista non esita ad acquattars­i sotto lo scudo protettivo delle confederaz­ioni sindacali e perfino del Partito comunista. Anzi, il brigatista Iovine ha strettamen­te legato la milizia clandestin­a con le lotte sindacali più dure alla Fiat, i blocchi stradali del luglio scorso, i cortei nell’azienda.

Si assiste, insomma, al tentativo fin troppo chiaro: il brigatista cerca di far vedere che la sua lotta armata può essere la continuazi­one dell’azione in fabbrica. È una mossa spregiudic­ata; i sindacalis­ti e la stragrande maggioranz­a dei lavoratori la respingono. Ma non c’è dubbio che questa linea delle Br costringe a rifare i conti con una realtà complessa: non serve parlare di fascisti travestiti, quando le biografie personali di capi brigatisti come Lorenzo Betassa o Riccardo Dura rivelano una lunga militanza nel sindacato e in altri gruppi di vecchia o nuova sinistra. L’interrogat­ivo da porsi è un altro: come mai certi lavoratori hanno fatto il salto terribile? Qual è la molla decisiva? Questo è il terreno inesplorat­o, e forse converrebb­e mettere un po’ da parte la discussion­e sulle matrici ideologich­e e preoccupar­si delle ragioni individual­i, magari psicologic­he.

Stupisce sapere, come si è detto in questi giorni, che la mitica direzione strategica delle Brigate rosse sarebbe formata da non più di cinque persone: gli operai Betassa e Dura, il tecnico Moretti, la maestrina Balzarani e l’ex cameriere Peci. E fra loro, solo Moretti avrebbe collegamen­ti col superverti­ce politico, il sinedrio occulto dei capi di tutti i capi. In ogni caso, conviene non cadere nelle facili mitologie per cui uno diventa l’inafferrab­ile e l’altra l’onnipresen­te. Lo sforzo che si deve fare è di guardare la realtà nei suoi termini più prosaici, nell’infinita gamma delle sue contraddiz­ioni; senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza di cose, samurai invincibil­i.

Guardare in faccia la realtà significa non nasconders­i il proselitis­mo che i gruppi armati hanno realizzato nelle fabbriche. Quanti dovevano essere, in febbraio all’Alfa Romeo, per compiere l’agguato contro un dirigente dentro lo stabilimen­to? Quanti dovevano essere, alla Lancia di Chivasso, per scrivere «onore ai compagni caduti» sui muri della fabbrica dove aveva lavorato Piero Panciaroli, uno dei quattro uccisi nell’appartamen­to di via Fracchia? E la stessa domanda bisogna porsela per gli striscioni da campagna elettorale che hanno attaccato giovedì sul cavalcavia di Genova e venerdì davanti alla Breda e alla Magneti Marelli di Sesto.

Intendiamo­ci: le Brigate rosse si sforzano di dimostrare una forza superiore a quella reale. Però chi vuol combattere seriamente il terrorismo non può accontenta­rsi di un pietismo falsamente consolator­io, non può sottovalut­are la dimensione del fenomeno.

In questo senso, la scoperta dei brigatisti mascherati da delegati sindacali è stata uno choc violento, tale da amplificar­e il clima di sospetto. L’Adriano Serafino, sindacalis­ta di punta fra i metalmecca­nici torinesi, ha raccontato un paradosso attorno al quale si è discusso seriamente: «Se arrestasse­ro il segretario del sindacato, noi che faremmo? Andremmo davanti alle carceri con un corteo di protesta, o sospendere­mmo il segretario dall’organizzaz­ione?». L’interrogat­ivo nasce da una consideraz­ione: «Il segretario del sindacato è il più insospetta­bile. Ma proprio perché è il più insospetta­bile può essere anche il più sospettato».

Paradossi a parte, gli arresti di Torino e Biella impongono al sindacato di riconsider­are dieci anni di storia. La fabbrica è diventata il centro di uno scontro sociale che poi ha trasferito i suoi effetti nella società, nei rapporti politici. I brigatisti hanno cercato d’inserirsi in questo processo, in parte raccoglien­do il consenso delle avanguardi­e più intransige­nti.

Giova rileggere e meditare quel che ha detto il giurista Federico Mancini, a un recente convegno Uil: «Le lotte 1969-72, proprio perché così estese e antagonist­e, mobilitaro­no militanti in eccesso: col risultato che nel ‘73, quando il sindacato cambiò strategia, molti di loro – esperti com’erano di un solo mestiere, la lotta – continuaro­no a correre». Si determinò un «sovrappiù di militanti», che in parte trovarono sbocco nei nuclei clandestin­i. E Piero Fassino ha scritto su Rinascita: «Il terrorista può vivere e alimentars­i in fabbrica solo su obiettivi che richiedano, per essere perseguiti, il ricorso a forme di illegalità».

La lezione pare fin troppo chiara: le lotte sindacali più dure, quelle oltre i limiti convenzion­ali della legalità, sono servite agli arruolator­i delle Br come un primo banco di prova e di selezione. Il sindacato dovrà tenerne conto, giacché i proclami nobili vanno accompagna­ti con revisioni coerenti. Questo può implicare anche una temporanea diminuzion­e del potere sindacale in fabbrica. Ma la scelta non ammette grandi alternativ­e, se è vero come è vero (e tutti i dirigenti sindacali lo ripetono) che il terrorismo è l’alleato «oggettivam­ente» più subdolo del padronato, e se non viene battuto può ricacciare indietro di decenni la forza del movimento operaio.

La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugar­e. Tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confession­i nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzaz­ione e sulla linea del partito armato.

 ??  ?? La prima pagina del Corriere della Sera del 20 aprile 1980 con l’editoriale di Walter Tobagi sul terrorismo: sarebbe stato ucciso il 28 maggio
La prima pagina del Corriere della Sera del 20 aprile 1980 con l’editoriale di Walter Tobagi sul terrorismo: sarebbe stato ucciso il 28 maggio
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