Corriere della Sera - Sette

QUEI SEI CANI SCIOLTI CHE LO RINCORSERO (E POI CROLLARONO)

- Di GIOVANNI BIANCONI

«Aspettammo circa 35-40 minuti, dopodiché ci accorgemmo che Tobagi usciva dal portone… Accennò ad attraversa­re la strada come per andare all’edicola e noi, che eravamo lì appostati, per non farci vedere ci allontanam­mo dall’edicola stessa. Ma Tobagi non fece quell’attraversa­mento, e questo ci procurò qualche difficoltà, perché io e Fabio ci trovammo parecchio indietro rispetto al punto in cui dovevamo essere e fummo, in pratica, costretti quasi a inseguire il Tobagi. Infatti Fabio disse “Andiamo”, e accennò a una corsetta… Mi misi a correre anch’io, e giunti a quattro o cinque metri da Tobagi Fabio disse “Piano”. Io arrestai la mia corsa rimanendo indietro, Fabio continuò invece a correre e subito cominciò a sparare, mirando possibilme­nte al cuore, come poi mi disse».

La freddezza del killer si fa sentire anche al momento della confession­e, nella precisione di ricordi e dettagli.

«Tobagi fece due passi e cadde, mentre Fabio, che aveva esploso tre colpi, tentò di sparare ancora, ma la sua 7,65 si inceppò. Io allora sparai due colpi con la mia 9 corto: uno da distante, un due o tre metri, che non so se abbia attinto il giornalist­a; l’altro mentre, correndo, gli passavo vicino mentre era già a terra, e quando avevo ormai avuto la netta sensazione che lui fosse già morto».

I ricordi

Freddo e calibrato, il terrorista rosso Marco Barbone, 22 anni appena compiuti, al punto da lasciar trasparire che il colpo di grazia fu scaricato su un cadavere; e che il primo, forse, aveva mancato il bersaglio.

In ogni caso la sua confession­e, messa a verbale la sera del 4 ottobre 1980 nella stazione dei carabinier­i di Porta Magenta a Milano, davanti al pubblico ministero Armando Spataro, accese uno squarcio di luce sull’omicidio di Walter Tobagi, 33 anni, inviato speciale del Corriere della Sera. Assassinat­o quattro mesi prima, la mattina del 28 maggio, da un gruppo di sedicenti guerriglie­ri rivoluzion­ari che rivendicar­ono il delitto con un volantino lungo sei pagine: «Oggi un nucleo armato della Brigata 28 marzo ha eliminato il terrorista di Stato Walter Tobagi… Individuar­e e colpire i tecnici della controguer­riglia psicologic­a. Niente resterà impunito».

Non faceva nient’altro che il suo lavoro, Tobagi, e lo faceva con attenzione e ingegno, cercando di capire le ragioni e i retroscena della lotta amata che da anni stava insanguina­ndo l’Italia.

Esattament­e due mesi prima di morire, il 28 marzo ’80, andò a Genova per raccontare la strage di via Fracchia: quattro brigatisti rossi uccisi in un blitz dei carabinier­i nel covo indicato dal pentito Patrizio Peci. Scrisse un articolo in cui sottolinea­va, fra l’altro, la reazione indifferen­te degli abitanti del vicolo alla morte dei terroristi. E commentava: «È come se perfino un sentimento di pietà non possa più trovar spazio, ed è la conseguenz­a più avvilente di quella strategia perversa che ha voluto puntare sulla lotta armata».

Il nome della Brigata che lo ucciderà, 28 marzo, nacque proprio «in onore ai compagni caduti per il comunismo» in via Fracchia; un bi

glietto da visita scelto da sei ragazzi giovanissi­mi (non tutti “di buona famiglia”, come fu detto per sottolinea­rne le origini borghesi e benestanti; ma Barbone sì) nella speranza di essere arruolati dalle Br.

Per questo fu ucciso Tobagi, il cronista che si rammaricav­a per la pietà perduta dopo la strage di terroristi. Bersaglio selezionat­o con cura.

«Considerat­o il suo nuovo ruolo nel Corriere» spiegò Barbone nella sua confession­e, a una settimana dall’arresto «sempre più proiettato in quello di un giornalist­a destinato ad assumere sempre maggiori incarichi di responsabi­lità, Tobagi era stato scelto come un obiettivo nei confronti del quale la logica e la prassi della lotta armata imponevano l’annientame­nto».

Il ragioniere del crimine politico dettava a verbale come se stesse scrivendo un documento ideologico, o di rivendicaz­ione, utilizzand­o gli stessi termini estraniant­i, per cui l’uccisione diventa “annientame­nto”. E precisò: «È la stessa logica per cui anche per un Galli non si poteva pensare a un azzoppamen­to, ma solo a un omicidio», laddove per «azzoppamen­to» s’intende ferimento alle gambe.

Pensavano e parlavano così, i terroristi nostrani di quarant’anni fa. E agivano così: prima di ammazzare Tobagi, il 7 maggio 1980, avevano colpito il giornalist­a de la Repubblica Guido Passalacqu­a: «Sparammo volutament­e al polpaccio per causare un azzoppamen­to leggero», precisò Barbone nel suo primo interrogat­orio da pentito. Svelando che in precedenza lui e i suoi amici avevano pensato di “annientare” il giudice istruttore Guido Galli, ma rinunciaro­no alla vista dei compagni di Prima linea che avevano avuto la stessa idea a la portarono a termine il 19 marzo (mancavano nove giorni alla strage di via Fracchia, e Galli fu uno dei tre magistrati uccisi in quattro giorni tra Salerno, Milano e Roma) .

In quell’ecatombe del 1980 i sei ragazzi della “28 marzo” avevano pensato bene di «fare qualche cosa per rispondere alla stretta repressiva dello Stato». Secondo il pentito «emotivamen­te si pensò, all’inizio, ad una rappresagl­ia nei confronti dei carabinier­i, come mettersi a sparare all’impazzata contro i primi a tiro davanti a una caserma; poi si convenne, più razionalme­nte, che la rappresagl­ia doveva essere più qualificat­a e qualifican­te».

Decisero di puntare il mirino sui giornalist­i come tre anni prima le Brigate rosse. E all’interno della categoria tra coloro che si occupavano di terrorismo, si concentrar­ono non sui cronisti di «tipo rozzo», come chi «praticamen­te incitava a proseguire sulla strada della pena di morte sul campo» , bensì sui «più intelligen­ti, che con i loro articoli non avevano l’intento di insultare o aizzare, ma funzionava­no come sonda all’interno della sinistra rivoluzion­aria». Quelli che cercavano di capire e raccontare ciò che stava succedendo, insomma. Quelli come Tobagi.

Barbone e la sua pattuglia arrivarono all’inviato del Corriere dopo aver scarto altri nomi: Giampaolo Pansa, Giorgio Bocca, Marco Nozza. «Ma è bene precisare» , spiegò Barbone, «che la sua individuaz­ione non è certo il frutto di una scelta

autonoma del nostro gruppo. Egli infatti poteva considerar­si un vero e proprio “obiettivo storico” all’interno dell’area della lotta armata, il suo nome è circolato da sempre tra le persone da colpire».

Il progetto

Il pentito rivelò un precedente piano messo a punto dai cosiddetti Reparti comunisti d’assalto, senza però dire che lui stesso, nel 1978, quando non ancora ventenne bazzicava le Formazioni comuniste combattent­i, aveva partecipat­o a un progetto di sequestro di Tobagi; lo rivelerà un altro collaborat­ore di giustizia, nel frattempo divenuto informator­e dei carabinier­i, da cui arrivarono le “soffiate” – sottovalut­ate o meno – che ancora oggi, a quarant’anni di distanza, alimentano le polemiche sul fatto che quell’omicidio si potesse evitare.

Il pubblico ministero Armando Spataro, che il 4 ottobre 1980 raccolse la deposizion­e di Barbone, resta a tutt’oggi convinto che gli investigat­ori fecero appieno il loro dovere, e che sul delitto

Tobagi non ci sono ombre ; né su quanto accadde prima, né sull’indagine che ne seguì: «La confession­e, estremamen­te precisa, circostanz­iata, e preceduta da una genuina autocritic­a e dissociazi­one dal terrorismo, fu riscontrat­a in ogni particolar­e. E tutti gli altri componenti della banda armata, chi prima e chi dopo, ammisero le loro responsabi­lità».

Come premessa al suo racconto Barbone aveva dichiarato, col suo linguaggio da volantino, che «la lotta armata in Italia non ha prodotto nulla dal punto di vista degli obiettivi politici che si proponeva (presa di potere, guerra civile di lunga durata, costruzion­e dell’esercito proletario); ha invece prodotto numerosi guasti nella vita sociale, un imbarbarim­ento della vita civile e politica, uno smarriment­o della capacità della classe operaia di essere soggetto politico trovandosi espropriat­a di ogni punto di riferiment­o finora acquisito, a causa della pratica della lotta armata».

Anche Paolo Morandini, ventenne al tempo dell’omicidio, collaborò subito con i magistrati, e come

Barbone subì la condanna più lieve: 8 anni e sei mesi, entrambi in libertà provvisori­a tre anni dopo gli arresti. Gli altri quattro – Daniele Laus che aveva 22 anni, Manfredi De Stefano di 23, Mario Marano (l’altro killer, nome di battaglia Fabio) 27 e Francesco Giordano di 28 – ebbero pene più pesanti, fino a 21 anni di galera. In realtà a De Stefano in primo grado furono inflitti 28 anni di detenzione, ma morì in carcere prima del processo d’appello che sancì alcune riduzioni di pena. Nel 2018 è morto pure Morandini, gli altri vivono da tempo nuove vite.

La rapida scarcerazi­one di Barbone e Morandini scatenò violente accuse contro i magistrati di Milano, con relative illazioni su presunti scambi tra promesse di libertà e silenzi su qualche complice (la fidanzata dell’epoca di Barbone) e i mandanti occulti dell’omicidio, da ricercare in ambienti giornalist­ici, editoriali o politici. Illazioni che continuano a indignare Spataro: «Sono tutte fesserie. Fu applicata la legislazio­ne per i collaborat­ori di giustizia, essenziale in quella fase per sconfigger­e il terrorismo.

Barbone fu un pentito importanti­ssimo, il primo nell’area eversiva milanese, e dopo di lui maturarono arresti e pentimenti a grappoli. Non ci furono patti, e le indagini su eventuali mandanti esterni furono fatte eccome, anche su input dei carabinier­i, ma non è emerso nulla. La storia è sempliceme­nte quella ricostruit­a nell’indagine e nei processi».

Era stato proprio il capo del Nucleo antiterror­ismo dei carabinier­i, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, a ipotizzare nel luglio ’80 (prima dell’arresto di Barbone) che la Brigata 28 marzo fosse «una specie di coagulo di cani sciolti, che hanno trovato nella famiglia del giornalism­o qualche sostenitor­e più accanito… A mio parere i cronisti ospitano nelle loro file certamente qualcuno che ha determinat­o un clima di cui si sono avvalsi i killer per uccidere Tobagi».

Dopo la cattura fu lui stesso a convincere Barbone a parlare con i magistrati, delle responsabi­lità sue e di molti altri: «La confession­e non si è fermata alla “28 marzo”, è andata più in là, siamo sui 100-120 personaggi», riferì alla commission­e parlamenta­re d’inchiesta sul terrorismo il 23 febbraio 1982, quando le indagini erano ancora in pieno svolgiment­o.

Sei mesi più tardi, il 3 settembre, anche dalla Chiesa fu ammazzato. Da altro piombo, stavolta mafioso.

Al processo per l’omicidio Tobagi, nel marzo 1983, Marco Barbone chiese ai giudici «di non rievocare la tragica dinamica di quella mattina»; bastava quello che aveva detto in istruttori­a. Preferì soffermars­i su ciò che avvenne dopo l’esecuzione del giornalist­a: «Inizialmen­te ci sembrava di aver raggiunto un obiettivo, tuttavia superato questo primissimo momento si era sostituita la sensazione di totale crollo; di esserci assunti delle responsabi­lità, prima umane che politiche, assolutame­nte sproporzio­nate a qualsiasi tipo di logica e di giustifica­zione. Io penso che tutti abbiamo avuto questa sensazione. Il fatto di avere questa personalis­sima responsabi­lità di toccare con mano l’orrore della morte che avevamo inflitto, almeno per quanto mi

 ??  ?? Tre componenti della Brigata XXVIII marzo: Dall’alto Gennaro De Stefano, Mario Marano e Paolo Morandini: erano tutti ventenni
Tre componenti della Brigata XXVIII marzo: Dall’alto Gennaro De Stefano, Mario Marano e Paolo Morandini: erano tutti ventenni
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? In alto la scena dell’omicidio di Walter Tobagi: Sotto Daniele Laus, Marco Barbone, fondatore della brigata, e Francesco Giordano
In alto la scena dell’omicidio di Walter Tobagi: Sotto Daniele Laus, Marco Barbone, fondatore della brigata, e Francesco Giordano
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? L’aula dove si svolse il processo per l’omicidio del giornalist­a Walter Tobagi, ucciso a Milano con cinque colpi di pistola la mattina del 28 maggio 1980
L’aula dove si svolse il processo per l’omicidio del giornalist­a Walter Tobagi, ucciso a Milano con cinque colpi di pistola la mattina del 28 maggio 1980
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy