Corriere della Sera - Sette

LULA, POI BOLSONARO IL GIUDICE CONTRO TUTTI

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Telecamera fissa sull’imputato, voce del giudice fuori campo. L’ex potente è alle corde, l’accusatore lo incalza e un Paese intero è alle sue spalle. Le immagini di Antonio Di Pietro che torchia i big della Prima Repubblica, il Brasile le ha rivissute tali e quali tre anni fa, quando l’ex presidente Lula finì sul banco degli imputati per corruzione, e il suo interrogat­orio arrivò nelle case. Al posto del sanguigno ex poliziotto molisano, c’era un pacato giudice di Curitiba, città del Sud del Brasile. Già allora, come il suo mentore, una specie di eroe nazionale contro i ladroni.

Il suo nome è Sérgio Moro, nome e volto tradiscono le origini italiane, come in molti in questa parte del mondo. Il giudice della Mani Pulite brasiliana (la cosiddetta operazione Lava Jato) è davvero un allievo di Di Pietro. Sull’esperienza italiana ha costruito, a partire dal 2014, la più devastante operazione contro la classe politica mai realizzata in Brasile e forse nel mondo, per numeri e denari

recuperati. Con un impatto assai superiore a Tangentopo­li: qui i politici e gli imprendito­ri in galera ci sono finiti per davvero, e alcuni a lungo. Fino, appunto, al più popolare brasiliano della storia dopo Pelé: Luiz Inácio Lula da Silva, l’ex operaio poi diventato presidente dal 2003 al 2010, poi fatto arrestare da Moro.

Dal 2014 ha costruito la più grande operazione anti corruzione: in carcere sono finiti politici e imprendito­ri, compreso l’ex leader di cui ha provocato la caduta. In seguito il «Di Pietro di Brasilia» ha sposato la causa del neo presidente, ma l’idillio è naufragato. E adesso si prepara alla partita finale

Il grande salto

Altro parallelis­mo, l’ambizione politica. Un’altra toga gettata dietro le spalle, al suono delle sirene del potere. Il salto di Moro alla fine del 2018 è ancora più marcante e polemico: il giudice di Lula accetta di diventare ministro della Giustizia di Jair Bolsonaro, l’ex militare di estrema destra che arriva a sorpresa alla presidenza come il paladino della lotta alla corruzione, e contro la sinistra. Bolsonaro ha certamente ottenuto vantaggi dalla condanna di Lula, il quale avrebbe voluto concorrere di nuovo alla presidenza, ma Moro non ci vede alcun conflitto di interessi. Il nuovo potente lo vuole per combattere la violenza in un Paese da 50.000 morti ammazzati l’anno. Il nostro attuale ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, all’epoca eurodeputa­to, corre a visitare Lula in carcere e sentenzia contro Moro: «Trovo paradossal­e che alcuni giudici cerchino l’appoggio popolare come fossero politici». E sostiene che la sentenza di condanna è campata per aria.

La storia finita

Corretti o meno i sospetti sulla buona fede di Moro in quei giorni, il conto è comunque arrivato. L’idillio con Bolsonaro è durato soltanto un anno e mezzo, Moro è stato estromesso dal ministero della Giustizia e, dall’alto della sua popolarità quasi immutata, sogna il colpo grosso. Dopo il mito Lula vuole abbattere in nome della legalità e della correttezz­a democratic­a anche quello di Bolsonaro. Cartucce ne ha quante, se non di più, della volta scorsa. Solo che stavolta l’obiettivo è ancora più grosso. L’ambizione di Sérgio Moro è correre alle Presidenzi­ali del 2022 e vincerle. Sancire definitiva­mente la vittoria della legalità in un Paese con gli indici di corruzione tra i più alti del mondo. La partita è in corso in questi giorni. Moro è saltato perché si è opposto al desiderio di Bolsonaro di rimuovere il capo della Polizia federale (che risponde appunto al ministro della Giustizia) e altri alti funzionari che stavano dando fastidio alla “famiglia”. Il clan Bolsonaro, il presidente più tre figli tutti in politica, ha una lunga lista di guai, sulla quale la polizia ha finora indagato con indipenden­za. Ora il presidente ha detto basta. Lasciando il ministero, Moro ha dovuto ammettere che persino negli anni in cui lavorava a Curitiba con gli investigat­ori per scoprire le tresche dei potenti di turno (la sinistra di Lula e Dilma Rousseff), nessuno si era mai sognato di interferir­e con la polizia al punto di chiedere la testa dei suoi vertici.

Ma cosa teme Bolsonaro? Si parte da uno schema di appropriaz­ione di fondi pubblici quando il figlio Flavio era un deputato di Rio de Janeiro, e assumeva collaborat­ori fantasma, alle relazioni sospette della famiglia con le milizie di Rio (i paramilita­ri che contendono ai narcos il potere nelle favelas), fino a fatti più recenti che arrivano al palazzo presidenzi­ale a Brasilia. La polizia è convinta che il figlio Carlos sia a capo di una banda di disseminaz­ione di fake news nei gruppi di WhatsApp, che già ebbero una importanza decisiva per l’elezione del padre; sempre i figli avrebbero stimolato manifestaz­ioni antidemocr­atiche nelle scorse settimane, per far sì che il Congresso e il potere giudiziari­o si piegassero ai desideri dell’esecutivo.

Gli scenari

Come sia possibile che Sérgio Moro, il giudice senza paura e senza macchia al quale la destra brasiliana darebbe pieni poteri, si sia accorto solo adesso di che pasta è fatto il sistema di potere Bolsonaro, pone ragionevol­i dubbi. Forse la storia è più semplice: tanti e tali sono i disastri dell’attuale capo di Stato – primo di tutti il negazionis­mo sulla pandemia – che si percepisce l’ora di un ricambio a destra, in un Paese che vuole ancora ordine, progresso e metodi sbrigativi. Vedremo. La saga del giudice buono per tutte le stagioni è ancora in corso.

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