Nash, genio folle dei numeri
Vitino di vespa, tacchi alti, capelli acconciati come li avrebbe poi portati la Elizabeth Taylor di Venere in visone, Alicia Larde negli anni Cinquanta era una studentessa salvadoregna di aristocratiche ascendenze al Mit di Cambridge, sempre seguita da un codazzo di studenti adoranti.
Un giorno Alicia entra nell’aula dove il matematico John Forbes Nash, solo 5 anni più di lei, ma già circondato dalla fama di genio disturbato e solitario, aveva appena iniziato una lezione di Calcolo Avanzato per ingegneri, non prima di aver chiuso tutte le finestre della stanza, per evitare distrazioni. Era settembre inoltrato ma nell’aula si soffocava, gli alunni si sventolavano in segno di protesta e Nash non aveva reazione alcuna; fu a quel punto che Alicia prese in mano la situazione, si alzò sui tacchi vertiginosi e caracollando andò verso le finestre e le aprì una a una, ogni volta voltandosi col capo a guardare Nash, sfidandolo a parlare. Ma lui non lo fece.
Comincia così uno degli amori più improbabili e affascinanti del 900: due anni dopo Alicia e John, persone distanti anni luce ma unite da un pervicace e quasi misterioso talento per le intuizioni della mente, si sposavano. Era il 1957 e già nel 1959 John Nash, matematico di vocazione che nel 1994 avrebbe preso un Nobel per l’Economia, mente brillantissima come lo ha incoronato il film del 2001 sulla sua vita cominciò a dare segni vistosi di schizofrenia, la malattia che per 30 anni lo avrebbe portato a vivere dentro e fuori dal mondo. Poco tempo dopo cominciò a parlare di uomini in cravatta rossa che lo seguivano, collegati a un “partito criptocomunista”; entrò in sala professori al Mit con una copia del New York Times dicendo che sulla prima pagina c’era un articolo in cui degli extraterrestri gli mandavano segnali che solo lui riusciva a decifrare.
Sempre era stato così, fin da bambino: ostico a intessere rapporti con gli altri anche se i genitori cercavano di farlo uscire dalla sua nuvola fatta di arroganza e timidezza, con un quoziente di intelligenza sociale che sfiorava lo zero, mentre l’altro volava verso vette purissime. «Io e lui eravamo in qualche modo dislessici», ha ricordato il matematico italiano Eugenio Calabi, studente a Princeton un anno prima di Nash. «Lui addirittura difendeva il non leggere. Diceva che imparare troppe cose di seconda mano ti impedisce la creatività e l’originalità». Invece di leggere, Nash si aggirava facendo domande e piccoli quiz e annotava tutto su un taccuino, sorvolando su quello che aborriva come “banale”.
Cercava la gloria ma a modo suo, consumandosi in calcoli e perdendosi nei numeri, la sua passione. Inseguiva l’intuizione giusta, spesso fischiettando a meraviglia Bach, il suo diletto. E proprio da giovanissimo arrivò l’intuizione che anni dopo gli valse il Nobel, con i suoi studi di matematica applicati alla teoria dei giochi: «Il suo genio era associato alla musica e all’arte. Non era tanto il fatto che la sua mente andava veloce, o che la sua memoria o la sua concentrazione fossero più potenti, era qualcosa di più magico», ha scritto Sylvia Nasar in A Beautiful Mind, il libro del 1998 che per primo ha alzato il velo sul mistero della mente di Nash. Nel 2001 il filmone dallo stesso titolo, diretto da Ron Howard con Russell Crowe e Jennifer Connelly.
Nash intanto aveva ripreso una vita quasi normale, dopo il divorzio ritrovò anche Alicia e si risposarono. Aveva ripreso a lavorare sull’ipotesi di Reimann, studiava i computer come dimostra la corrispondenza email con Enrico Bompieri, altro matematico italiano gloria di Princeton: «Era diventato anche più ciarliero, discutevamo di teoria dei numeri davanti a un caffè, aveva sempre un punto di vista leggermente diverso». Morì insieme ad Alicia in un incidente stradale, in taxi, i l23 maggio 2015, al termine di una vita vissuta tutta fuorischema, e chissà quanto dolorosamente. Ma che dimostra che il genio è per sempre e la “pazzia”, invece, a volte no.