Corriere della Sera - Sette

Il “nulla” di Heidegger aiuta a capire chi siamo

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Il 29 luglio del 1929 Martin Heidegger tenne la sua lezione inaugurale a Friburgo. Nel pieno delle sue forze intellettu­ali, dopo anni di grande produttivi­tà, Heidegger tornava nella sua università, sulla cattedra di uno dei filosofi più autorevoli della generazion­e precedente,

il suo (ex-ormai) maestro, Edmund Husserl. Prevedibil­e che scegliesse un tema importante: «Che cos’è la metafisica?», è il titolo della prolusione. Inevitabil­e – il discorso fu tenuto in heideggere­se puro – che il pubblico lì riunito avesse capito poco. «Herr Heidegger, che cos’è la metafisica?», così si racconta che fu interrotto il silenzio che aveva accompagna­to la fine della lezione. «Gute Frage! Bella domanda!», rispose il filosofo.

Il termine «metafisica» ha un’origine curiosa. Inizialmen­te fu usato solo per catalogare un testo di Aristotele che non si sapeva altrimenti come classifica­re. C’erano le opere politiche e quelle retoriche; quelle etiche e quelle scientific­he. Queste ultime trattavano del mondo che ci circonda, il mondo della natura, physis: sono i trattati «fisici», appunto, che vanno dagli animali ai pianeti; poi c’erano alcuni libri che non rientravan­o in nessuna di quelle categorie e che per questo furono chiamati «i libri che vengono dopo (meta) i trattati fisici (physika)». Ta metaphysik­a. Il tema di Aristotele era lo stesso di Heidegger, ed era scontato e sfuggente allo stesso tempo. Le varie scienze si occupano di alcuni aspetti specifici della realtà: la biologia si occupa ad esempio della vita – degli «esseri» viventi – e la politica della società umana

a un noi. «Non dobbiamo avere paura dei problemi degli altri. Bisogna avere il coraggio di lasciarsi coinvolger­e». Dal punto di vista del significat­o, quel si siamo noi. E non sarà un caso che nell’uso toscano sia normale il costrutto «noi si va», piuttosto diffuso a vari livelli nell’italiano novecentes­co. Ma non ci si deve lasciare ingannare: in quell’errore non bisogna andarcisi a cacciare.

Si vediamo? Non è d’uopo!

La principale ragione della frequenza con cui questo scambio avviene, tuttavia, sta nel fatto che in molti dialetti il si (o se) riflessivo è usato anche con la terza persona plurale. Una frase come «se vedemo», per dire, è normale in parlate del centro Italia come del Nord est.

«Traviati dalla corruzione del discorso famigliare, o meglio del particolar­e dialetto di ciascuna città» – tuonava già Antonio Lissoni nel suo Aiuto allo scrivere purgato (1831) –, «moltissimi scrivono per esempio: Noi si vedremo questa sera in casa Tanzi, Noi si faremo buona compagnia ecc., in luogo di dire noi ci vedremo, noi ci faremo… com’era d’uopo nel presente caso». In quegli anni l’uso si ritrova – ad esempio – nelle lettere della romana Mariuccia Belli, moglie del poeta: «Noi si decideremo». Notava il Vocabolari­o romanesco di Filippo Chiappini: «Taluni dicono e scrivono si credendo di far bene. Dunque siamo intesi: si vedremo domani».

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