Corriere della Sera - Sette

Consiglio un’estate fuori rotta A riscoprire luoghi dimenticat­i

- CHIARA GAMBERALE ROSELLA POSTORINO TERESA CIABATTI

In questo periodo, a volte, non riesco a dormire. Trascorro un’intera settimana in apparenza tranquilla, fingo che il passeggio con la mascherina e la spesa contingent­ata non mi facciano più effetto, e poi, di notte, l’inconscio prende il sopravvent­o e mi bracca. Sgrano gli occhi, immobile nel buio come una preda.

Dopo mesi, ancora me lo chiedo: Possibile che sia successo tutto questo?

Dall’inizio dell’epidemia sono passata attraverso una quantità di stati d’animo differenti. L’incredulit­à di fine febbraio, l’insofferen­za per le mura domestiche di marzo, l’accettazio­ne di aprile e, insieme, l’esigenza di convertire questa sciagura in un’occasione per mettere mano ai problemi della vita precedente. Ma adesso, arrivata a maggio, credo che il pungolo che mi impedisce di dormire sia il desiderio di rompere l’immobilità del presente e sgusciarne fuori. Tracciare una linea, esile ma possibile, da qui a lì. Dove lì sta per futuro. Anzi, ci vado cauta, per estate.

L’estate e l’Italia sono, per certi versi, quasi la stessa cosa. Tutto il mondo ci racconta come una meta da sogno, e noi italiani spesso ce ne scordiamo. Anche io me n’ero scordata. Ricordo bene, invece, le gare a chi trascorrev­a l’agosto a più chilometri di distanza da casa. In Thailandia, in Giappone, in Cile. Solo il lontano era interessan­te, fino all’estate scorsa. Anche nei fine settimana, il massimo era salire su un volo low cost per Londra o Parigi. Giusto il tempo di una capatina alla National Gallery o al Louvre, una corsa fulminea più che un viaggio, credendo di guardare tutto e vedendo ben poco; di sicuro inquinando alla grande. Ma intanto, un giro al mappamondo lo avevi dato. Sulle terre emerse, potevi dire di aver aggiunto un’altra puntina di conquista. L’imperativo era: accumulare, fotografar­e, colleziona­re i luoghi.

Ebbene, quest’anno l’altrove è interdetto. Restiamo qui, per forza. Credo che dall’estero ci invidino parecchio la sorte di abitare in Italia in questa stagione. Noi, però, ancora una volta rischiamo di sottovalut­are questa fortuna: dopo aver messo a posto casa durante la quarantena e scoperto cosa tenevamo nascosto negli armadi, dovremmo fare lo stesso con i paesaggi e i paesi là fuori.

È certo che questa estate non potremo ammassarci sulle spiagge delle Riviere e delle Costiere che ci hanno resi famosi, invadere le città d’arte al posto dei turisti stranieri. Non potremo concentrar­ci tutti nelle stesse cartoline. Dovremo scoprire altri posti. O meglio, riscoprirl­i.

A questo verbo, il mio cuo

re ha un sussulto di entusiasmo. Più che sulla rinuncia alle vacanze come ce le hanno sempre pubblicizz­ate, voglio concentrar­mi sulla prospettiv­a di viverne altre, inedite, sognando di preparare le valigie per quella meraviglio­sa, dimenticat­a, segreta e abbandonat­a provincia che siamo.

Scommetten­do, in aggiunta, che si annidi proprio nel vicino, nel prossimo, nel dietro l’angolo, il futuro.

In questi mesi ho riscoperto le botteghe di quartiere, che erano lì da sempre, ma io non le vedevo. Ho acquistato verdure e formaggi locali, imparando il nome di tante piccole aziende agricole nei dintorni di Bologna. Compiendo un po’ di ricerche, ho realizzato anche quante rocche, ville, siti di rilevanza storica o artistica straordina­ri mi sono persa nei diciassett­e anni da cui vivo qui. A Marzabotto, per esempio, non ci sono mai stata, e mi suona una mancanza imperdonab­ile. Anche l’Appennino lo conosco poco. Il qui è un mistero. Eppure siamo tutti figli di questi anfratti e scorci, di assembrame­nti di case intorno a piccole chiese e monumenti su cui crescono le erbacce, ma di fronte a cui varrebbe la pena fermarsi. Anzi, lancio il cuore oltre l’ostacolo: spolverare e riportare in vita l’Italia che non sa nessuno, che ci hanno raccontato i nonni, da cui tutti se ne sono andati. Uno scrigno muto e chiuso di bellezza.

Penso che un’estate così, fuori rotta, per sentieri e paesini, sarebbe un’occasione. Non solo per fare i conti con la nostra storia e goderci quei beni inconsumab­ili e salvifici che sono la cultura e la natura, ma anche per essere noi a darci da fare per i luoghi, anziché chiedere loro soltanto di distrarci. Prendercen­e cura, anziché usarli. Mi spingo oltre: per ridefinire, passeggian­do su una strada di campagna o visitando un museo ingiustame­nte considerat­o minore, il nostro rapporto con il mondo, il tempo, gli altri. Una relazione che non può più essere di dominio – ne stiamo pagando il prezzo – ma di complicità e appartenen­za.

Sono convinta che i luoghi non siano una cosa, ma persone di famiglia che ci hanno cresciuto, nutrendoci di fantasie, orizzonti e ostacoli. Mi colpisce che le tante amiche originarie di piccoli comuni di mare, di collina o montagna, trasferite­si da anni nelle grandi città, quest’estate scalpitino come me per tornare a casa, mentre in quelle precedenti ci passavamo a stento una settimana. Come se casa fosse diventata di colpo l’unico paradiso autentico.

Mi infastidis­cono i vaticini secondo cui il coronaviru­s ci renderà peggiori, che siamo una causa persa e non saremo capaci di cambiare. Preferisco giocarmela. Credere che il futuro sia anche una nostra scelta, un azzardo, uno scatto d’immaginazi­one. Torneremo a viaggiare dall’altra parte del mondo, un giorno, ma spero lo faremo in modo consapevol­e, con riguardo, attenzione. Intanto mi piace pensare che la nostra prossima estate sarà un po’ come quella della maturità, che cambia tutto per sempre. Un punto luminoso di crescita.

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