Il pugno sulla quarantena del millennial salvadoregno
Centinaia di detenuti delle due gang Maras rivali, seduti seminudi, uno appiccicato all’altro ma con la mascherina (sic): riuniti nelle stesse celle, quasi auspicando il loro massacro reciproco (i diritti umani?). Finché non ne troverà una più forte – e la troverà – questa è l’immagine che il salvadoregno Nayib Bukele dà di sé e della sua presidenza. Un anno fa si era presentato in jeans e “chiodo” di pelle dicendo che con lui il Paese aveva «voltato pagina», a 28 anni dalla guerra civile. Millennial 38enne, ex organizzatore di night e sindaco della capitale, figlio di un cristiano palestinese diventato imam (lui si dichiara cattolico), ha spazzato via i due partiti di centrodestra e centrosinistra puntando sulla lotta a corruzione e crimine per fermare la migrazione di massa da El Salvador. Col lockdown sta usando il pugno duro: 30 giorni di detenzione per il migliaio di cittadini che l’hanno violato (in Russia è di 48 ore). Mesi ideali per chi vuole ampliare il potere e indebolire le vecchie istituzioni: alla vigilia del Covid ha portato i militari in parlamento per forzare un voto, durante ha vinto un braccio di ferro con la Corte Suprema e ha twittato ogni 25 minuti Trump-style. Ha denunciato un caso di coronavirus fra i deputati: col fuggifuggi è mancato il quorum. Ma la povertà cresce, mentre per l’opposizione comanda il suo clan, fatto di moglie, fratelli, cugini e amici. I conti alle Legislative di febbraio: El Salvador avrà creduto al duro presidente in giubbotto di pelle?