IL RIANIMATORE: QUANDO DECIDEMMO CHI POTEVA VIVERE
Sei marzo. La casa brucia. «Le previsioni stimano un aumento dei casi di insufficienza respiratoria acuta di tale entità da determinare un enorme squilibrio tra necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità di risorse intensive». Il presidente Conte non ha ancora firmato il suo primo decreto, quando sul sito della Siaarti, la Società italiana di anestesia e rianimazione, appaiono queste righe: sono la premessa alle 15 raccomandazioni che la Società stessa ha appena inviato ai primari di tutte le terapie intensive. È un testo che scotta: si parla di vita, di morte. E soprattutto di scelte. Quelle che da quel punto in avanti dovranno fare i medici, per far fronte all’ondata di ricoveri. «Il principio secondo cui il primo paziente arrivato è anche il primo assistito» vi si legge «non è più adatto». E quindi: «Il criterio da privilegiare per l’ammissione ai trattamenti intensivi diventa quello della maggiore speranza di vita». Materiale da maneggiare con cura. Invece dopo poche ore finisce sulle pagine dei giornali. «Ecco il documento segreto per decidere chi salvare», c’è chi titola. Ed è uno choc: il Paese, forse per la prima volta però, prende cognizione dell’imminente tragedia. «Eppure quelle raccomandazioni erano necessarie e si sono rivelate fondamentali», dice oggi colui che le ha scritte lavorando nel pool ristretto della Siaarti: Alberto Giannini, 58 anni, responsabile della Terapia Intensiva Pediatrica dell’Ospedale di Brescia, una vita di studio tra etica e pratica clinica. Che per la prima volta, a distanza di quasi tre mesi da quei momenti drammatici, accetta di parlarne. «All’inizio fu davvero difficile…».
Perché?
«C’era chi si stracciava le vesti. Ricordo telefonate molto tese, anche di colleghi. “Cosa state facendo”, mi dicevano. Si sollevò anche l’Ordine dei Medici, invocando il giuramento d’Ippocrate. “È nostro obbligo curare tutti”, diceva il presidente. Come fossimo stati tanti Erode…».
E lei?
«Io rispondevo a tutti: in alcuni ospedali le ambulanze non riescono più nemmeno ad entrare. Abbiamo 10, 30, 60 pazienti che arrivano tutti insieme con difficoltà respiratorie; ma pochissimi ventilatori. E dicevo loro: chi va assistito? La verità è che non avevano la più pallida idea di quello che stesse succedendo….».
Ci racconti quelle ore. Quando vi metteste a scrivere il testo.
«C’era una richiesta molto forte, pressante, da parte dei medici che si vedevano travolti da un uragano di indicibile violenza e velocità. All’inizio con i rianimatori della Lombardia ci vedevamo due volte alla settimana. Capimmo subito però che il contagio iniziava ad allargarsi a macchia d’olio e che nel giro di pochi giorni avremmo esaurito i posti. La necessità di dare delle linee guida divenne impellente. Io, con il collega Marco Vergano di Torino, scrivemmo tutto in 48 ore».
Si rammarica di qualcosa?
«Con più tempo avremmo avuto la tranquillità per poter riformulare certi passaggi, conservando in pieno i contenuti ma esprimendoli in modo più chiaro…».
Quali per esempio?
«È passata l’idea di una discriminazione legata all’età. Ci sarebbe voluto da parte nostra uno sforzo di maggiore chiarezza. Era un testo che aveva come destinatari i medici che lavorano nelle terapie intensive,
Il 6 marzo è stato scritto il documento con le regole per l’emergenza: «Se avessimo avuto più tempo avremmo chiarito meglio alcuni punti»
certamente aperto al mondo esterno e quindi tutt’altro che segreto come scrissero in molti, ma era pensato per una lettura di interlocutori che avevano l’”alfabeto”».
Si parla però di trattare chi ha “maggiore speranza di vita”...
«Il problema non è l’età anagrafica in sé, ma ciò che dal punto di vista biologico l’età rappresenta. Sono sicuro che ci siano 80enni che fanno il passo del Ghisallo in bicicletta mentre io probabilmente morirei dispnoico. Il punto è che anche in condizioni ordinarie il medico deve prendere decisioni spesso molto difficili integrando una serie di informazioni riguardo l’appropriatezza della cura. Qui parliamo di una malattia multi-sistemica, il Covid, che con il passare dei giorni ha dimostrato tutta la sua gravità. Con pazienti pronati in terapia intensiva anche per 18 ore di fila. Se si intuba il paziente che è in condizioni peggiori, attribuendogli così l’unica risorsa salvavita, il rischio è lasciare senza chi magari ha più chance di salvarsi. In definitiva, il rischio è avere 2 morti, anziché un morto e un guarito». Crede che quelle raccomandazioni possano essere diventate per qualcuno una via di fuga?
«Non abbiamo riscontri, andrà studiato. Ma posso pensare anche che questo genere di riflessione sia stato un forte aiuto a persone, e parlo dei medici, che hanno sperimentato un carico di fatica nei processi decisionali davvero terribile».
Cosa lascia questo fenomeno epocale?
«A tutti un senso di vulnerabilità. Eravamo entrati in una sorta di delirio di onnipotenza; ma la dimensione del limite esiste e ci accompagna. Come il tema della morte, che è sempre più un tabù. Come medici invece ci ha mostrato quanto le nostre conoscenze, benché ampie e approfondite rispetto alle generazioni che ci hanno precedute, siano ancora incomplete. Ma questo evento ha anche abbattuto muri: ci ha obbligato a lavorare in équipe multidisciplinari, operando molto di più in gruppo. Mentre una cosa mi ha scandalizzato».
Quale?
«Ce ne siamo resi conto quando per alleggerire il peso delle terapie intensive in Lombardia i pazienti venivano spostati in Sicilia o in Germania, anziché magari trovare accoglienza in Veneto. A fronte di iniziali disponibilità, arrivavano poi dinieghi. Vuol dire che questo sistema sanitario fortemente regionalizzato non si è dimostrato un sistema equo. E che purtroppo viviamo ancora in una realtà fatte di palizzate».