Nella Cina che adora Marco Polo dove son finiti i mercanti italiani
A Canton c’è la società cinese autentica, con la sua folla polverosa, frettolosa. Nel giorno di festa tutte le botteghe sono aperte, sulle panchine alcune servette fumano orgogliosamente le loro sigarette, studenti vestiti all’europea tengono nel taschino la loro brava penna stilografica. Sugli autobus i rappresentanti di ditte tedesche hanno un solo pensiero: diffondere la produzione del loro Paese. E noi?
Il porto è costituito da un largo fiume dove grosse giunche a vela e a vapore, barche, barchette e motoscafi sono tutto un andare e venire. La città si estende in grande parte sulle sponde del fiume. È un’ampia città cinese, capoluogo del Kuang-tung, provincia di quarantacinque milioni d’abitanti. Centro commerciale, intellettuale e politico importante. Qui nel 1911 scoppiò la rivoluzione di Sun-Yat-Sen contro il potere imperiale, qui nel 1927 i Russi hanno tentato con Borodin l’esperimento comunista, qui sono nati e si sono segnalati i principali uomini del Kuomintang, o partito nazionalista, oggi predominante. La vicina Accademia militare di Wampoa, attualmente trasferita a Wai-chow, era una fucina di caporioni politici. Vi è un’Università cinese dedicata a Sun-Yat-Sen, con una Facoltà giuridica assai frequentata e un’Accademia inglese dove i futuri funzionari di S. M. Britannica nell’Estremo Oriente imparano il cinese e s’ambientano. Il cantonese passa per il tipo più intelligente della Cina. La città è stata in più punti sventrata, sono state costruite lunghe strade asfaltate e bei palazzi moderni: ma ogni quartiere è tagliato da stretti vicoli dove case e vita hanno il più tipico aspetto cinese.
La piccola isola di Shameen appartiene parte all’Inghilterra e parte alla Francia. È un vero mortorio con la sua continua atmosfera da stato d’assedio: cinta di reticolati, munita di casamatte per mitragliatrici nei punti strategici, congiunta alla riva cinese da due ponti vigilati da gendarmi. Dopo il tramonto il Cinese non vi può più mettere piede. Grandi alberi danno ombra a queste case dal freddo aspetto inglese. Passato il ponte, è la Cina autentica che impera con la sua folla polverosa, frettolosa, con gli innumerevoli bambini che giuocano portando i fratellini più piccoli legati sulla schiena, coi suoi soldatacci in babbucce, con le donnine in cappe di seta rosa o celeste.
Una domenica a Canton
Ecco è domenica: ce se n’accorge pure qui, sebbene tutte le botteghe siano aperte. Una piccola isola ridotta a giardino pubblico rasenta la riva: è piena di soldati che si fermano a guardare i monumenti della rivoluzione e una fontana dove un amorino di marmo lancia uno zampillo nella vasca che lo circonda. Uno di questi monumenti, dal tetto appuntito e arricciato alla cinese, porta nella parete, riprodotti in marmo, i gruppi dei cantori di Luca della Robbia. I soldati si fermano, toccano le figure e ridono, perché nel naso e nel taglio degli occhi non somigliano a loro. Il marmo è tutto ingiallito dalle manate sudicie. Ragazzi sfiniti, orridi, sporchi, con pantaloni ora corti, ora lunghi, fasce e babbucce, berretto calcato sugli orecchi, grigio bluastro
del vestito e un cartoncino con iscrizione appiccicato sul petto: ecco come si presenta il soldato cinese. Se inquadrassero i coolies che tirano le carrozzelle, avrebbero, almeno fisicamente, soldati migliori.
È domenica. Un padre, col figlioletto preso per mano, gira tra le aiuole, e alcune servette fumano orgogliosamente le loro sigarette sedute sulle panchine. Impiegatucci o studenti con cappello di feltro e vestito all’europea tengono con vanto infilata al taschino la loro brava penna stilografica. Più in là un vagabondo s’è tolta la camicia e si spulcia. Davanti ad un altro monumento un soldato legge con cantilena agli altri una lunga iscrizione in bronzo. Tutto attorno all’isoletta non vi sono che sampan, queste barchette col felze arcuato, una vicina all’altra, e lungo le rive del fiume pure, a migliaia e a migliaia e tutte piene di donne: giovani, vecchie e bambinelle. Abbandonate o comperate per poco da piccine, vengono messe in questi asili natanti per crescere abili traghettatrici e prostitute nello stesso tempo. Esercito di donne, alla sera, tutte a terra, sulla riva, strepitanti nei richiami. Ma sul fiume vi sono anche grandi giunche fastosamente dipinte a fiorami sui bordi, con lunghe bandiere al vento. Venti anni fa ve n’erano circa cinquecento, – una città galleggiante, – e si passava da una all’altra: un incendio le distrusse tutte e centinaia di ragazze perirono. Ora sono poche giunche.
Dopo il tramonto, quando la nebbia sale leggera e il cielo appare a squarci illuminato d’arancione, in queste giunche incominciano le musiche. Grandi lanterne di carta rossa all’interno: giovanette che cantano accompagnandosi al cembalo e a una specie di mandolino oblungo. Voci lievi e indimenticabili unitamente all’armonia del suono. Vi sono stanzette tutte foderate di seta bianca ricamata a fiori e a paesaggi: in alcune si mangia o si gioca, altre servono per fumare l’oppio e per l’amore. Grandi vasi con rami fioriti. Figurette strette nelle cappe di seta appaiono nella penombra: i volti incipriati hanno brevi sorrisi, e di sfuggita come spaurito l’occhio riguarda. La giunca va su e giù per il fiume: nella notte, attorno i lumicini dei sampan e tutte le luminarie sulle facciate delle case lungo il porto.
Aria di baldoria, mercati pieni
Si ha l’impressione di una continua vita di baldoria. Sfarzo di luci davanti ai teatri, agli alberghi e ai cinematografi. Fracasso di musiche dai «restaurants» e per la strada. Negozi, bazar sempre aperti, pieni di gente che compera, di gente che guarda, di gente che vende. Vi è tutto un palazzo di cinque piani che funziona da grande magazzino: ascenseurs, magnifico scalone e merci di primo ordine. Frotte di miserabili circolano frammisti alla folla, perché vogliono