Corriere della Sera - Sette

I racconti dall’Oriente, il Premio Strega

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I reportage di Giovanni Comisso per il Corriere della Sera (in alto) sono iniziati nel 1930 con il Grand

Tour dell’Oriente: Cina, Giappone, Russia e Siberia. Il servizio che potete leggere in queste pagine è stato realizzato proprio durante quel viaggio. Nei lunghi mesi in Paesi lontani scriveva alla madre: «Me ne uscivo a notte inoltrata senza neanche pensare di rasentare il minimo pericolo. Non credo fosse coraggio, ma un’incoscenza datami dall’accanita volontà di vedere». Nel dopoguerra Comisso attraversa una profonda crisi esistenzia­le e inizia a scrivere racconti, un’attività che nel 1955 lo porterà a vincere il Premio Strega con Un gatto attraversa la strada (sotto) vedere i lussuosi prodotti europei. Folla, folla innumerevo­le sotto ai portici, nelle automobili, negli autobus, in carrozzell­a, e altra che si scarica dai battelli in arrivo da Hong Kong o da Macao e dalle giunche a vapore da Wu-chow e da Wai-chow. A cinquecent­o chilometri da qui la guerra ondeggia, a dieci chilometri si possono incontrare i banditi: con tutto questo la vita si svolge frenetica nel commercio e nel divertimen­to. Negli autobus s’incontrano rappresent­anti di ditte tedesche con la busta di cuoio sotto al braccio chiusi e impettiti come dominati da un solo pensiero: diffondere la produzione del loro Paese. Ai crocicchi i poliziotti che danno la direzione alle vetture portano ad armacollo il fucile con la baionetta inastata. Passano pattuglie di soldati svogliati e lividi, e altre di annunciato­ri di spettacoli fiere e impettite con bandiere e trombette. Di tanto in tanto un aeroplano sorvola la città a bassa quota con arditi volteggi: viene dal vicino campo militare. Sono di fabbrica francese o tedesca; ma i piloti sono cinesi e disprezzat­issimi della morte.

Nella strada delle banche tintinnano le monete: i ragazzi le fanno saltare nei panieri, come se pulissero il grano dal loglio. Vi sono vicoletti che avvincono col loro aspetto. Le pareti delle casette di nitidi mattoni grigi; le porte lasciano intravvede­re la sala d’entrata con l’altare agli avi illuminato. Due suonatori ambulanti sono fermi su d’una soglia: uno suona un violino a due corde con la cassa fatta di mezza noce di cocco, l’altro, un piffero. Più avanti un incisore di timbri curvo sul lavoro minuto, un venditore di uccelli e poi, uno di seguito all’altro, quelli di anticaglie: hanno appeso alle mura delle case vecchi dipinti gualciti; per terra piattini di porcellane, giade e oggetti indefiniti. Uno fuma l’oppio in un’ingiallita pipa di bambù e brucia la pasta alla brace d’un bastoncino di sandalo. In un negozio alcuni ragazzi preparano con gravità enormi teste di drago di cartone. Un sarto lavora accanito. Diffidano al sentirsi osservare, ma al sorriso corrispond­ono col sorriso. Nessuno

mendica. Nessuno importuna. Nelle vendite richiedono prezzi esagerati, ma accettano sempre la controffer­ta al disotto della metà. Nel ricercare il tempio dei Trecento Geni, dove il nostro Marco Polo sta lì divinizzat­o, sbaglio e penetro in un tempio occupato da un circolo politico nazionalis­ta. Grandi bandiere blu col sole a raggi appuntiti. Vi sono alcuni studenti che impacchett­ano opuscoli. Mi ricevono gentilment­e: dico che sono Italiano, mi fanno vedere la sala delle riunioni. Davanti a un ritratto di Sun-Yat-Sen pronuncio con rispetto questo nome e loro come per ricambiare mi ripetono animosi: «Mussolini, Mussolini». Poi loro stessi mi accompagna­no fino al tempio.

Sembra fatto di pietra serena, un po’ impolverat­a: due grandi divinità dorate e dipinte di verde e di rosso stanno elevate tra le colonnine della tettoia a guardia della porta. Il bonzo apre. Nella fresca penombra appaiono allineati e seduti su sopraeleva­ture di pietra lungo le pareti

Nel tempio sto davanti al Marco Polo di pietra con naso e orecchi orientaliz­zati. Ma che pena: nessun commercian­te della nostra razza in questa città famelica di merci europee

innumerevo­li gli iddii dorati o rossastri dalle larghe facce sorridenti, dai ventri ampi, segno di saggezza, in attitudini estatiche, affabili o minacciose. Marco Polo è un po’ dietro all’altare, il primo d’una fila. Eccolo, tarchiato, col cappello di feltro all’europea e mantello sulle spalle, le mani in atto di spiegare. Un bel volto massiccio di viaggiator­e a piedi, con la barba ricciuta che gli circonda il collo come un collarino. Gli hanno orientaliz­zato naso e orecchi. Davanti a lui bruciano i bastoncini di sandalo offerti dai fedeli. Come non compiere con devozione pure noi quest’offerta? Ma come non sentir pena? Nessun commercian­te italiano in questa Canton famelica di merci europee: solo lui della nostra razza, qui da secoli ad attendere nella sua serena, sorridente, dorata imagine di iddio. Egli il primo europeo in Cina, amato per le sue opere, viceré imperiale, maestro di pazienza e di sicurezza nelle sue marce infinite, pare che dica: «Venite, la strada è dura, ma vi farò da guida».

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