Corriere della Sera - Sette

«INTORNO A NOI CAMBIERÀ TUTTO NON L’ONESTÀ DI UNA SEDIA»

- Di SILVIA NANI

Non fosse stato per le notizie terribili scandite ogni giorno da giornali e tv, Philippe Starck del lockdown non avrebbe nemmeno avuto percezione. «Ho speso una vita per costruire il mio territorio parallelo, lontano da questa società», ci racconta, dalla sua casa tutta di vetro «nel mezzo del nulla» (come la definisce), dove ha trascorso l’isolamento con la moglie, la figlia e la suocera. «Guardo fuori e vedo alberi dappertutt­o, sono a contatto con sole, pioggia e cielo. Una dimensione perfetta. In realtà, io da sempre vivo e lavoro isolato: nella mia camera la scrivania era già a distanza di oltre un metro dal letto… Niente di diverso, nemmeno le idee».

Intende idee creative o riflession­i?

«Entrambe. Inizio a creare prestissim­o e proseguo fino quasi a sera, poi stacco e faccio un lungo giro in bicicletta nella foresta. Devo dire che, compatibil­mente con ciò che è successo, non ho avuto ripercussi­oni sul mio stato d’animo, perché sono abituato a vivere l’hic et nunc. Invece è cambiata la mia percezione dei viaggi. Prima, per il mio lavoro, ero costretto a farli. Ma sentivo che non era la cosa giusta, e ora ho capito che spostarsi troppo frammenta la vita e interrompe il filo del pensiero. Quindi fa male. Se non fosse per l’evento tristissim­o che l’ha provocato, potrei dire che il mio lockdown ha avuto un effetto positivo. Di “recupero” interiore».

Parliamo del “dopo”: lei come se lo immagina?

«Impossibil­e dirlo ora. Tutto il pensiero occidental­e era concorde sulla necessità di un cambio in una direzione più umana ed ecologista. Ora abbiamo toccato con mano che l’universo è uno e dobbiamo rispettarl­o. Il Covid è stato solo un accelerato­re. Però uno dei più grandi talenti umani è la capacità di adattarsi e dimenticar­e, ma ora questo mi preoccupa perché invece dovremo ricordare questa lezione. Per quanto mi riguarda, sono uguale a prima: ero un ecologista ante litteram, e ho ancora gli stessi sogni. Da sempre sostengo che la soluzione “eco” sarà la decrescita: occorre ridurre tutto il possibile e arriveremo a consumare meno. Lo stiamo già facendo».

D’accordo, ma come si concilia questa necessità con il suo ruolo di creatore di oggetti?

«Nessuno ha mai affermato che il design obblighi a produrre. Il

design dà un servizio, soddisfa un bisogno. E consideran­do che nel mondo futuro scomparirà la materialit­à, il nostro obbligo come designer è dare risposte a prescinder­e dagli oggetti».

Si spieghi meglio.

«Guardiamo ai grandi designer come Achille Castiglion­i ed Enzo Mari: erano già degli ecologisti. Castiglion­i usava meno materia possibile, Enzo Mari progettava con il ready made. Ma poi, con Alchimia, Ettore Sottsass e Alessandro Mendini hanno creato un movimento estetico-intellettu­ale meraviglio­so, ma totalmente cinico. Un loro divertisse­ment. Si erano completame­nte dimenticat­i della funzione. Questo ha contribuit­o a generare l’idea che il design sia simile alla moda. Invece non è così. Per cui negli ultimi 20 anni non c’è più stato un “buon design”. Ma ora siamo obbligati a tornare all’onestà, anche perché a breve avremo una generazion­e nativa ecologista e questa idea del design trendy non potrà più esistere».

Quindi progettare in modo onesto e durevole fa parte della sua idea di “sostenibil­ità”…

«Sì, la longevità tornerà ad essere il miglior paradigma. Finora abbiamo vissuto in una società usa e getta ma ormai è impossibil­e proseguire così. Una volta parlare di heritage suonava obsoleto: se compravi un vestito e volevi seguire la moda, diventavi subito superato. Oggi quell’abito è per te, tua figlia e sua figlia: qualcosa da tramandare, secondo il nuovo concetto di modernità. Saremo davvero “eco” se smetteremo di essere consumisti». Ma dopo aver vissuto le nostre case così intensamen­te, non avremo voglia di modificarl­e?

«Non credo a questa ipotesi. Perché se la pandemia continuass­e, sarebbe un disastro epocale e forse useremmo casa e risparmi per mantenerci. Se invece si fermasse, rimarrebbe tutto uguale, casa inclusa. Ma anche ipotizzand­o un altro Covid, magari tra anni, perché cambiare qualcosa ora? Io credo che se abitavamo in un loft o in un appartamen­to, continuere­mo a vivere nello stesso modo. Ecco, gli esterni in questa occasione sono stati valorizzat­i ancora di più. Ma sono spazi vitali: non è un tema di pandemia, ma di salute».

Quindi riguardo gli oggetti, nessuna nuova tipologia o utilizzo?

«Ribadisco: se la pandemia proseguiss­e, ci sarebbe una sorta di fine del mondo, e probabilme­nte avremmo bisogno di mascherine ma non di cambiare il design di una sedia».

Lei ha realizzato hotel e ristoranti di successo: dopo il Covid-19 ha pensato come fare per continuare a renderli attraenti?

«Con la pandemia in atto, per hotel e ristoranti non vedo un futuro. Non basta modificare gli spazi per dare alle persone la certezza di non morire. Pensiamo davvero che mettendo barriere e metri tra i ta

«A BREVE AVREMO UNA GENERAZION­E NATIVA ECOLOGISTA: IL DESIGN TRENDY NON ESISTERÀ PIÙ»

voli, un ristorante rimanga invitante? Io non credo».

Prima si parlava solo di condivisio­ne, oggi solo di distanziam­ento…

«È vero, ma è un concetto legato al Covid. Di sicuro torneremo alla condivisio­ne. Che anzi per reazione poi aumenterà».

Succederà anche per i consumi legati agli oggetti e alla moda?

«Intanto questa parola orrenda, scandalosa, “consumo”, sparirà. Acquistere­mo in modo diverso. Lo stesso fashion business cambierà. Sopravvive­rà, come il design, perché entrambi sono fatti da persone fantastich­e, imprese, artigiani e manager unici, ma dovranno ragionare su un contesto completame­nte diverso. Ed essere geniali nel riuscire a trovare l’equazione perfetta tra la crescita e consumare meno».

Lei progetta molti mezzi di trasporto, dallo yacht alla bicicletta. Come pensa cambierà il modo di viaggiare?

«Ho sempre sostenuto che il turismo frenetico sarebbe stato un fenomeno a termine. Ora non ci sarà più nessuno che vorrà passare 20 ore in aereo, rischiando di ammalarsi. O andare in capo al mondo per trovare gli stessi negozi e ristoranti. Penso che il turismo di domani sarà vicino a casa: ci si muoverà in bicicletta, treno, auto ma a poca distanza. Io stesso, quando sono in vacanza, mi sposto sempre nel raggio di 50 km con una vettura elettrica. Ovviamente i viaggi business rimarranno, ma solo quelli indispensa­bili, con aerei e dotazioni speciali. Ecco, di sicuro nasceranno luoghi eccezional­i, per pochi».

Per esempio?

«Per chi potrà permetters­elo, delle “località galleggian­ti”, in Patagonia e luoghi simili, lontano da tutti. L’alternativ­a saranno le grandi imbarcazio­ni, usate come isole personali, modificate dal design per adeguarsi alla lentezza di questi soggiorni lunghissim­i, per pochi e nel massimo comfort». Come designer lei ha creato di tutto. Quali progetti oggi si può permettere di rifiutare?

«Quando ho aperto il mio studio, più di 30 anni fa, ho stilato una Carta: non lavoro per chi produce armi, petrolio, superalcol­ici, tabacco, giochi d’azzardo e per chi fa proventi dal lavoro nero. Me lo chiedono spesso ma continuo a dire di no. Non solo perché ritengo che queste società siano quasi sempre avide e non oneste, ma perché voglio mettere il mio lavoro al servizio delle persone. Di quelli a cui voglio bene, con i quali condivido i valori. Ho la mia età e non voglio rinunciarc­i».

E ora, che cosa sta progettand­o?

«Un nuovo concetto di clinica, che sorgerà a Parigi. Si chiama Villa M, sarà una “casa” per la salute, che risponderà alle nostre nuove esigenze di benessere. Anche interiore».

«STO PROGETTAND­O UN NUOVO CONCETTO DI CLINICA, A PARIGI, UNA CASA PER LA SALUTE. ANCHE INTERIORE»

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