Dei, natura e contagi Perché rileggere l’Iliade
Un contagio indecifrabile; tanti morti; e decisioni difficili da prendere. Così inizia l’Iliade, il primo testo letterario della civiltà europea. Agamennone, il re della spedizione greca contro Troia, aveva preso come bottino di guerra la figlia di un sacerdote – Criseide, si chiamava.
E Crise, il sacerdote, aveva pregato il suo dio di aiutarlo, quando il re si era rifiutato di renderla. Detto fatto. Agamennone aveva osato mancare di rispetto a un dio? Apollo lo aveva punito immediatamente, scagliando per l’accampamento greco le sue frecce avvelenate: «Mala peste fece nascer nel campo»; «Di continuo le pire dei morti ardevano». Soltanto rendendo Criseide, spiegherà allora Calcante, il dio si sarebbe placato. È il momento in cui esplode il problema dell’Iliade. Criseide era parte del bottino di Agamennone: privandosene, lui avrebbe avuto meno degli altri guerrieri. E questo è inaccettabile. Come fare? Certo, la ragazza andava resa al padre. Ma Agamennone?
Sono storie attuali, quando si comprende lo schema su cui sono costruite. Il racconto si articola infatti secondo due linee, una verticale e una orizzontale, e due concezioni della giustizia. La linea verticale riguarda il rapporto tra uomini e dei; quella orizzontale riguarda il rapporto tra uomini e uomini. C’è la giustizia divina, la punizione che inesorabilmente colpisce gli esseri umani quando violano i limiti che sono stati loro imposti; e una giustizia umana, che riguarda il modo in cui gli uomini organizzano i loro rapporti reciproci. Sembrano due questioni differenti:
germanica, contrapposta a quella tradizionale di un’origine preromana o addirittura preindoeuropea. Dalla variante italiana settentrionale màscara deriverebbero le forme spagnola, catalana e portoghese. E anche, tramite una serie di passaggi che portano la parola in Inghilterra e poi la riportano in Italia con un significato diverso, il mascàra con cui ci si trucca gli occhi (che infatti all’inizio si usava al femminile: «prima con la matita, poi ripasso tutto con la mascara liquida e alla fine il rimmel», racconta Claudia Cardinale a Moravia nel 1963).
Parole in gabbia
Le prime attestazioni di mascherina in ambito medico-chirurgico risalgono almeno al primo Novecento. Già in un articolo pubblicato nel 1915 negli Incurabili. Giornale di medicina e chirurgi asi legge di «un paragone batterioscopico e culturale fra gruppi di casi operati senza guanti e senza mascherina». Molto più recente – risale a meno di dieci anni fa – l’accoglimento nei dizionari dell’accezione relativa a quel «piccolo schermo di tela o altro materiale applicato davanti al naso o alla bocca – molto meglio a tutt’e due, potremmo aggiungere adesso – per proteggere dalla polvere, dalle infezioni, ecc.» (così lo Zingarelli 2019).
Nell’edizione 1970 dello stesso dizionario, in compenso, alla voce mascherina si leggeva anche: «Canovaccio della melodia di una canzone composto di numeri e parole a fantasia che serve ai parolieri per adattare i versi». Per adattare i versi alla musica, in effetti, bisogna rispettare una serie di obblighi che rischiano di limitare la libertà e la creatività linguistica: frasi brevi, accenti, rime. Anche per le parole, insomma, la mascherina è una gabbia da cui non è facile uscire: una griglia che costringe ogni volta la realtà nelle caselle di un immaginario cruciverba.