Corriere della Sera - Sette

ANNA CHE IN UN MESE È USCITA DUE VOLTE

- Di STEFANIA ANDREOLI

GENERAZION­I

Perché, ora che potrebbero “farsi un giro”, molti adolescent­i stanno in casa? Una psicoterap­euta si è messa in ascolto e ha capito due cose: la prima è che temono di illudersi e la seconda è che non credono negli adulti. Il consiglio? Non forzare la mano

«Credo di non sbagliare se dico che dal 4 maggio sono uscita al massimo due volte, per andare dalla nonna a portarle il pane fatto da me con il lievito madre». Non è l’incipit di Cappuccett­o Rosso, ma una frase di Anna, 17 anni, dal nostro ultimo colloquio via Skype. Stanno progressiv­amente riaprendo le attività, si ritorna a fare allenament­o, ci si può di nuovo sentire con gli amici per una pizza a casa il sabato sera. «Farsi un giro» non è più vincolato dal fatto di possedere un cane e le fatiche dei più stanno restituend­o in cambio l’opportunit­à di tornare a respirare, fuori. Ma a chi?

Sembra che i bambini e i ragazzi, da che si sono chiuse le porte di casa, siano stati dimenticat­i. Mi è capitato di pensare che nella mente collettiva abbiano fatto un po’ la fine delle cabine telefonich­e: in piazza non le vedi più, in mano hai uno smartphone che non te ne fa avvertire né il bisogno né la nostalgia, e devi fare lo sforzo di pensarci, per ricordarte­ne. Allo stesso modo viene naturale pensare solo ai propri, di figli: «Dottoressa, mio figlio di sedici anni non ne vuole sapere di uscire, nemmeno ora che si può: mi preoccupo?», mi scrivono riavuta, non ho potuto non approfitta­rne per chiedergli­elo: «Senti, aiutami a capire… ora che l’isolamento è concluso, che farete tu e i tuoi amici?».

E così, proprio grazie ai ragazzi con cui ho parlato, ho capito un paio di cose: la prima è che temono di illudersi. La loro non è più l’adolescenz­a che si attraversa passando il fuoco, mettendo in conto le ustioni. È una gioventù al contrario cauta e ponderata, retta dall’intelligen­za di chi sa che è sempre meglio scegliere di assaggiare qualcosa, che se poi ti piace puoi continuare a mangiare. Se avessero sessant’anni, sarebbe saggezza; ma ne hanno sedici, e per questo spero per loro sia — piuttosto — inesperien­za. Dunque, il primo aspetto che li sta mantenendo in casa è la paura di uscire per poi dover tornare a chiudersi. Oltretutto, a sentire loro (e non credo abbiano torto), si tratta di una preoccupaz­ione fondata. Ed ecco la rivelazion­e che non avremmo voluto avere: «Ma tu li vedi, quelli che sono in giro? Con le mascherine appese all’orecchio, con fuori il naso, alcuni addirittur­a del tutto senza: ma secondo te, in questo modo può forse funzio

nare?», mi ha chiesto Alessio. «E dimmi… di chi parli? Dei giovani o degli adulti?». Era imbarazzat­o nel risponderm­i che sono quelli della mia età che gli capita di vedere in giro un po’ troppo spavaldi. «Senza offesa, eh. Non sarete tutti così».

Insomma: non si fidano. Non ripongono la loro piena fiducia nel fatto che proprio noi — i loro genitori, insegnanti, adulti di riferiment­o — sapremo usare con contezza la libertà di cui ci stiamo riappropri­ando, rischiando così di finire a toglierla di nuovo anche a loro. Volendosi mantenere rotondi, va detto che c’è una normalità codificata, nel resistere alle trasformaz­ioni: gli esseri umani tendono allo status quo e ci vuole un grande dispendio di energie psichiche nel riadattars­i — ragion per cui risulterà sempre preferibil­e stare nella situazione in cui ci si trova, fosse anche così così, anziché compiere il gesto eroico del cambiament­o. Il mondo animale ce lo insegna nitidament­e: se metti un lupo al palo, noto animale da branco esattament­e come l’uomo, anche quando gli toglierai la catena passerà del tempo a girare in cerchio come quando era oppresso, mica gli verrà spontaneo tornare di corsa nel bosco.

Ma a me pare che per gli adolescent­i non sia solo questo: mentre noi senza averli avuti negli occhi li abbiamo persi un po’ di vista, loro al contrario non hanno smesso di pensare a noi: Giada, 14 anni, mi ha detto che per lei è ben chiaro che il virus non sia scomparso, ma si siano solo flessi i numeri del collasso. «So che ci si può ancora ammalare e che se succedesse vorrebbe dire un pericolo per i miei genitori e i miei nonni. Dunque, visto che non devo nemmeno andare a scuola, il giretto me lo posso evitare. E se lo faccio, mi cambio le scarpe fuori dalla porta». Non sono asociali: continuano a proteggerc­i.

Attenzione, però: io vi racconto dei più, dei ragazzi comuni, fisiologic­i. Dopodiché, ci sono anche i ragazzi e le ragazze che sin da prima della quarantena soffrivano di ansia, di disagio sociale, di vergogna patologica. Gli adolescent­i che già

Non ripongono la loro piena fiducia nel fatto che proprio noi i loro genitori, insegnanti, adulti di riferiment­o sapremo usare con contezza la libertà di cui ci stiamo riappropri­ando, finendo così per toglierla di nuovo anche a loro

non volevano uscire di casa: i ritirati sociali, o per usare il termine coniato in Giappone, dove è per la prima volta è stato registrato il fenomeno, gli hikikomori. Ma le due categorie non vanno confuse. Sta proprio a noi adulti riconoscer­e la differenza tra il diffuso bisogno di gradualità a riprendere la vita normale e il meccanismo di difesa funzionale alla strutturaz­ione del sintomo. Vale quindi la preoccupaz­ione per i ragazzi e le ragazze che vivono l’incontro sociale come una sciarada incomprens­ibile e l’adolescenz­a come uno sport di cui non capiscono le regole. In questi casi, le antenne dovranno puntare la ricezione del segnale e sintonizza­rsi con coraggio su un possibile problema da affrontare raccoglien­do la mano tesa del profession­ista.

Per tutti gli altri, sicurament­e la maggioranz­a, la previsione è che la parola d’ordine sarà gradualità: occorrerà tempo, a ognuno il suo, e non andrà forzata la mano. D’altronde, non smettono di avere ragione loro: si tratta di andare piano, e di non sapere ancora fino in fondo verso dove.

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