ANNA CHE IN UN MESE È USCITA DUE VOLTE
GENERAZIONI
Perché, ora che potrebbero “farsi un giro”, molti adolescenti stanno in casa? Una psicoterapeuta si è messa in ascolto e ha capito due cose: la prima è che temono di illudersi e la seconda è che non credono negli adulti. Il consiglio? Non forzare la mano
«Credo di non sbagliare se dico che dal 4 maggio sono uscita al massimo due volte, per andare dalla nonna a portarle il pane fatto da me con il lievito madre». Non è l’incipit di Cappuccetto Rosso, ma una frase di Anna, 17 anni, dal nostro ultimo colloquio via Skype. Stanno progressivamente riaprendo le attività, si ritorna a fare allenamento, ci si può di nuovo sentire con gli amici per una pizza a casa il sabato sera. «Farsi un giro» non è più vincolato dal fatto di possedere un cane e le fatiche dei più stanno restituendo in cambio l’opportunità di tornare a respirare, fuori. Ma a chi?
Sembra che i bambini e i ragazzi, da che si sono chiuse le porte di casa, siano stati dimenticati. Mi è capitato di pensare che nella mente collettiva abbiano fatto un po’ la fine delle cabine telefoniche: in piazza non le vedi più, in mano hai uno smartphone che non te ne fa avvertire né il bisogno né la nostalgia, e devi fare lo sforzo di pensarci, per ricordartene. Allo stesso modo viene naturale pensare solo ai propri, di figli: «Dottoressa, mio figlio di sedici anni non ne vuole sapere di uscire, nemmeno ora che si può: mi preoccupo?», mi scrivono riavuta, non ho potuto non approfittarne per chiederglielo: «Senti, aiutami a capire… ora che l’isolamento è concluso, che farete tu e i tuoi amici?».
E così, proprio grazie ai ragazzi con cui ho parlato, ho capito un paio di cose: la prima è che temono di illudersi. La loro non è più l’adolescenza che si attraversa passando il fuoco, mettendo in conto le ustioni. È una gioventù al contrario cauta e ponderata, retta dall’intelligenza di chi sa che è sempre meglio scegliere di assaggiare qualcosa, che se poi ti piace puoi continuare a mangiare. Se avessero sessant’anni, sarebbe saggezza; ma ne hanno sedici, e per questo spero per loro sia — piuttosto — inesperienza. Dunque, il primo aspetto che li sta mantenendo in casa è la paura di uscire per poi dover tornare a chiudersi. Oltretutto, a sentire loro (e non credo abbiano torto), si tratta di una preoccupazione fondata. Ed ecco la rivelazione che non avremmo voluto avere: «Ma tu li vedi, quelli che sono in giro? Con le mascherine appese all’orecchio, con fuori il naso, alcuni addirittura del tutto senza: ma secondo te, in questo modo può forse funzio
nare?», mi ha chiesto Alessio. «E dimmi… di chi parli? Dei giovani o degli adulti?». Era imbarazzato nel rispondermi che sono quelli della mia età che gli capita di vedere in giro un po’ troppo spavaldi. «Senza offesa, eh. Non sarete tutti così».
Insomma: non si fidano. Non ripongono la loro piena fiducia nel fatto che proprio noi — i loro genitori, insegnanti, adulti di riferimento — sapremo usare con contezza la libertà di cui ci stiamo riappropriando, rischiando così di finire a toglierla di nuovo anche a loro. Volendosi mantenere rotondi, va detto che c’è una normalità codificata, nel resistere alle trasformazioni: gli esseri umani tendono allo status quo e ci vuole un grande dispendio di energie psichiche nel riadattarsi — ragion per cui risulterà sempre preferibile stare nella situazione in cui ci si trova, fosse anche così così, anziché compiere il gesto eroico del cambiamento. Il mondo animale ce lo insegna nitidamente: se metti un lupo al palo, noto animale da branco esattamente come l’uomo, anche quando gli toglierai la catena passerà del tempo a girare in cerchio come quando era oppresso, mica gli verrà spontaneo tornare di corsa nel bosco.
Ma a me pare che per gli adolescenti non sia solo questo: mentre noi senza averli avuti negli occhi li abbiamo persi un po’ di vista, loro al contrario non hanno smesso di pensare a noi: Giada, 14 anni, mi ha detto che per lei è ben chiaro che il virus non sia scomparso, ma si siano solo flessi i numeri del collasso. «So che ci si può ancora ammalare e che se succedesse vorrebbe dire un pericolo per i miei genitori e i miei nonni. Dunque, visto che non devo nemmeno andare a scuola, il giretto me lo posso evitare. E se lo faccio, mi cambio le scarpe fuori dalla porta». Non sono asociali: continuano a proteggerci.
Attenzione, però: io vi racconto dei più, dei ragazzi comuni, fisiologici. Dopodiché, ci sono anche i ragazzi e le ragazze che sin da prima della quarantena soffrivano di ansia, di disagio sociale, di vergogna patologica. Gli adolescenti che già
Non ripongono la loro piena fiducia nel fatto che proprio noi i loro genitori, insegnanti, adulti di riferimento sapremo usare con contezza la libertà di cui ci stiamo riappropriando, finendo così per toglierla di nuovo anche a loro
non volevano uscire di casa: i ritirati sociali, o per usare il termine coniato in Giappone, dove è per la prima volta è stato registrato il fenomeno, gli hikikomori. Ma le due categorie non vanno confuse. Sta proprio a noi adulti riconoscere la differenza tra il diffuso bisogno di gradualità a riprendere la vita normale e il meccanismo di difesa funzionale alla strutturazione del sintomo. Vale quindi la preoccupazione per i ragazzi e le ragazze che vivono l’incontro sociale come una sciarada incomprensibile e l’adolescenza come uno sport di cui non capiscono le regole. In questi casi, le antenne dovranno puntare la ricezione del segnale e sintonizzarsi con coraggio su un possibile problema da affrontare raccogliendo la mano tesa del professionista.
Per tutti gli altri, sicuramente la maggioranza, la previsione è che la parola d’ordine sarà gradualità: occorrerà tempo, a ognuno il suo, e non andrà forzata la mano. D’altronde, non smettono di avere ragione loro: si tratta di andare piano, e di non sapere ancora fino in fondo verso dove.