Corriere della Sera - Sette

AND THE YAKUZA

- (Tout est gore)

È

belga di cittadinan­za ma congolese di origini, è arrrivata in testa alle classifich­e con Nei suoi brani racconta la solitudine causata dal razzismo: «I genitori del mio ex fidanzato mi hanno chiamata “una negra in casa”. Vieni giudicata per qualcosa di cui non hai il controllo». Storia di una ragazza controvent­o, che vuole capire (e cambiare) tutto

Canta in francese e per diversi anni ha vissuto in Belgio, ma non si sente europea. Nel pantheon di Lous and the Yazuka, cantante 24enne di origine congolese, cresciuta tra il Rwanda e il Vecchio Continente, non c’è posto per Rihanna e Beyoncè: «Solo le donne nere, ma chiare, hanno successo». Meglio la leggendari­a cantante di musica folk giapponese Ikue Asazaki. Figlia di due medici africani, Lous ogni mattina fa meditazion­e e disegna sul suo corpo i simboli delle sue riflession­i. Il suo rapporto con l’Italia è speciale: da esordiente è già stata ospite di Fabio Fazio, X Factor 2019 e con i cantanti trap tha Supreme e Mara Sattei ha firmato il remix del suo primo singolo, Dilemme, diventato disco d’oro.

Durante la primavera del 2020 dovevi girare l’Europa per promuovere il tuo primo disco e invece la pandemia ci ha preso tutti alla sprovvista. Ti cito e ti chiedo se non è, come canti in Gore, «una tale sfortuna che fa più ridere che piangere».

«Sì, ridere invece che piangere. Non importa quello che ti succede, devi rimanere positivo».

Poche settimane fa hai pubblicato sul tuo canale YouTube il video Solo genesis, la genesi di Solo, il tuo ultimo singolo. La solitudine è un tema ricorrente nei tuoi brani.

«Penso faccia parte della mia vita quotidiana, ho bisogno di restare da sola, qualche volta, anche se mi piace stare con le persone, amo la mia famiglia e i miei amici. Ma a proposito di Solo, la causa per cui siamo soli, noi persone nere, è il razzismo. La solitudine che vivo per via della mia razza è quella di cui parlo. È diversa perché è una condizione che non scegli».

Il singolo mi è sembrato una dolce canzone d’amore e di sorellanza per le donne nere: è così?

«Il razzismo è razzismo, non importa quali sono le tue origini. Un esempio che ci accomuna tutti è quando sali sull’autobus e la persona vicino a te si allontana perché ha paura che tu possa rubarle qualcosa. Oppure quando vai in un club e le persone ti guardano in modo strano e non vogliono sedersi vicino a te. È ovunque. E poi quelle altre cose tremende come i genitori del mio ex fidanzato che mi hanno chiamata “una negra in casa”. Penso che il motivo per cui la canzone sia stata accolta così bene dalle persone nere sia perché non importa quale sia stata la tua esperienza, senti che devi combattere sempre. Quando canto “Toujours devoir débattre (oh no); Toujours devoir se défendre (oh no, no)” che significa che devi sempre combattere, devi sempre difenderti, costanteme­nte, e ti chiedi: perché? È a caso, non si basa sulla tua personalit­à, non si basa sul tuo accento, vieni giudicato per qualcosa su cui non hai controllo. Perciò preferisci restare solo».

Nella tua vita hai vissuto in Congo, Rwanda e in Belgio. Come è stato?

«Mi confondeva perché ogni volta era un grande cambiament­o. I miei genitori hanno fatto un buon lavoro, crescendom­i mi dicevano: non sei migliore di nessuno ma sei formidabil­e. Diventando grande ricordarlo mi ha aiutata. Viaggiare ha voluto dire ritrovarmi tra guerre, malattie, non avere una casa. Ma guardo tutto attraverso il filtro dell’amore di Dio».

Credi in Dio?

«Essere credente (Lous è cristiana,

«Vado in prigione a parlare con gli stupratori, voglio dare loro un’idea d’amore, perché è un gesto capace di provocare mutazioni. Essere giovani in Europa? Ci sono più opportunit­à di essere pigri: se sei bianco, in Belgio, va tutto bene»

è la cosa più importante della mia vita. Dio ci insegna “Ama il prossimo tuo come ami te stesso”. Questo è il motivo per cui amo me stessa e sono in grado di amare ciò che non si può amare. Sono stata in prigione per fare visita ad assassini, stupratori, per parlare con loro. Non li incontro regolarmen­te ma vado da loro perché voglio capire e voglio dare loro un’idea d’amore, perché è un gesto capace di cambiare tutto. Un altro esempio sono le mie zie, che all’inizio mi criticavan­o per il sangue che mostro nel video di

Gore: avrebbe fatto pensare che ero una strega, perché l’immagine del sangue appartiene al demonio. E io pensavo: ma il sangue è vita! Io ho le mestruazio­ni ogni mese e se non mi arrivano vuol dire che il mio corpo non è in salute! Se ho sangue nelle vene sono viva, se mi manca sono morta».

Sei femminista?

«Certo che lo sono. Essere femministi vuol sempliceme­nte aspirare all’uguaglianz­a tra uomini e donne. Se sono in grado di fare tutte le cose che sto facendo nella mia vita in questo momento è perché ci sono molti uomini femministi intorno a me».

Con la regista cileno-canadese Wendy Morgan hai costruito due prodotti molto diversi fra loro. Nei primi video, Dilemme e Tout est gore, sei la capa della tua Yakuza, la gang giapponese, a metà tra un dipinto del ‘700 e un film dell’orrore. In Solo, invece, balli e ti muovi in un ambiente per la prima volta candido. Come avete lavorato all’immaginari­o da costruire nelle clip?

«Wendy è bianca e profondame­nte consapevol­e del privilegio bianco e del suprematis­mo bianco. Nel primo video, Dilemme, non ero sicura di volere che i personaggi fossero tutti neri, perché voglio essere sicura ci sia inclusivit­à e che le persone capiscano che possiamo convivere. Ma lei mi ha risposto che il problema è che i neri si vedono solo in caso di criminalit­à, morti, malattie. “Fai il primo passo e mostra l’eccellenza nera!”».

La tua passione per il Giappone, invece, come è nata?

«Credo di aver visto il mio primo manga quando avevo cinque o sei anni. La cultura giapponese è simile a quella del Rwanda, hanno un forte senso della famiglia, dell’amicizia, dell’amore, della condivisio­ne. È un paese tecnologic­o ma che mantiene una cultura tradiziona­le intatta. Un po’ come me, che sono di vecchio stampo ma anche moderna. Quando è arrivato nella mia vita l’ha cambiata per sempre».

In Europa manca un immaginari­o sulla gioventù in Congo, Rwanda e anche dei ragazzi belgi di origine straniera. Puoi descriverc­i chi sono e cosa vogliono?

«In Congo il conflitto è in tutto il Paese e i giovani cercano di acquisire tutte le competenze necessarie per cambiare la situazione. La vita è difficile dal 1997 ma vedo molta motivazion­e. In Rwanda è completame­nte diverso perché dopo il genocidio del 1994 nel paese c’è stata una forte evoluzione. Non è consentito l’uso della plastica, le donne lavorano con posizioni di potere nel governo, nelle aziende, negli ospedali. I giovani vanno in università, diventano imprendito­ri. In Belgio, in Europa, ci sono più opportunit­à di essere pigri. E ci sono due tipi di giovani. I bianchi: se sei bianco in Belgio, per te va tutto bene. Se sei figlio di immigrati ci sono ampie zone d’ombra. E la brutalità della polizia. In ogni caso sono circondata da coetanei con una grande voglia di migliorare la propria vita e le condizioni del mondo. Tutti si impegnano per il cambiament­o».

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Un ritratto di Lous and The Yazuka, nome d’arte di Marie- Pierra Kakoma, 24 anni

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