Corriere della Sera - Sette

SI PUÒ STARE TRE MESI SENZA CALCIO, MA SE SALTI UN CAMPIONATO NON È PIÙ UN’ASSENZA, È LA FINE

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Lì ho avuto terrore del tempo perché sentivo che tutti stavano pensando molto più a un presente finito che a un futuro già arrivato. La vecchia stagione, quella classica, si sarebbe chiusa domenica 24 maggio, tanto tempo fa. Oggi siamo già nella zona d’ombra dove il tempo spinge altro tempo, tutto si sovrappone e diventa una scommessa. Non posso mettere il mio mondo in mano a una scommessa. Lo devo sempre riconoscer­e per poter scappare.

Oggi che il calcio torna sento il vecchio rumore dell’emozione corrermi dentro leggero e caldo come la pioggia di questi giorni. Abbiamo davanti un’avventura sconosciut­a, il nuovo calcio è un pianeta senza storia, fantascien­za popolare da conseguenz­e incontroll­abili. Ho voglia di viverlo, come ho voglia di vivere questa strana estate che abbiamo davanti, con le serate, tutte le serate, a guardare le partite in tv, come fossero gli Europei, come fossero i Mondiali.

Ma tutta questa diversità mi batte dentro come un ultimo spavento. Perché può fermarsi, perché è ancora tutto appeso a un contagio. Uno solo e torniamo soli. Tutto così fragile, così facile da rompere da sembrare fatto apposta. Ho sempre considerat­o il calcio la mia amicizia, la compagnia, una cosa del mio privato più profondo, come un’altra solitudine. È stato giusto farselo mancare, averne paura. Ma ora che torna aspetto i suoi colori con inquietudi­ne. È come se lo dovessi meritare, come dovessi sciogliere una freddezza. Forse davvero quanto ci ha cambiato il virus lo sapremo da come riabbracce­remo il calcio. Se ne usciremo semplici e un po’ bambini, allora saremo guariti.

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