Ma quant’è difficile la didattica online (senza banda larga)
Cara Lilli, sono un’insegnante di storia dell’arte ultrasessantenne in un liceo milanese, impegnata, molto, nella DaD (didattica a distanza) in tempi di emergenza da coronavirus. Al di fuori della scuola non si riesce a capire quanto impegno e tempo possa prendere la progettazione di nuove modalità di un lavoro educativo e culturale, che deve avvenire in presenza fisica per poter essere tale, e che a distanza si può pensare solo come soluzione di emergenza. Da quando a inizio marzo mi sono applicata con entusiasmo convinto a re-inventare la mia professione in una situazione educativa molto complicata, ho ben presto scoperto che il cosiddetto smartworking (anglismo tutto italiano, piuttosto ipocrita) smart non lo è per niente, perché invade tutti i momenti della vita. Nei paesi anglofoni viene chiamato più neutralmente e correttamente Work from Home (WfH). In conclusione, va bene rinnovare la lingua, essendo essa cosa vivente, ma sempre con consapevolezza.
Laura Marini laura.marini@fastwebnet.it
CARA LAURA, lo smartworking è stato senza dubbio una risorsa preziosa durante questi mesi di lockdown. Per le aziende, per gli impiegati, per tanti liberi professionisti e per gli insegnanti, che hanno consentito ai nostri ragazzi di poter continuare a studiare. È stata una sfida al nostro modo spesso arretrato rispetto ad altri Paesi di concepire il lavoro, la produttività e il rendimento. Dall’inizio della quarantena il 45% delle grandi imprese italiane ha consentito ai dipendenti di lavorare da casa e anche se la Fase 2 ha fatto tornare in sede 2,7 milioni di lavoratori, sono ancora molte le aziende che incentivano il lavoro da casa.
Tutto bene dunque? No perché, appunto, lo smartworking non è smart per tutti. Non lo è per chi lavora al Sud, dove le percentuali di adesione non superano il 30% contro il 42% del Nord-Ovest e il 33% del Nord-Est. E non lo è per le donne, che dall’inizio dell’emergenza si sono ritrovate a dover gestire il proprio lavoro, lo studio dei figli e le inevitabili faccende domestiche.
Secondo l’ultimo rapporto della Cgil condotto nel periodo del lockdown, «per le donne, questa modalità di lavoro è più pesante, alienata, complicata e stressante» e questo meriterebbe una riflessione sull’urgenza di ridisegnare gli equilibri familiari e lavorativi in Italia.
Una riflessione a parte andrebbe fatta per la scuola e la didattica a distanza in un Paese come il nostro, dove il 76% degli utenti non ha ancora la banda larga a fronte del 40% della media Ue. Gli insegnanti sono stati chiamati e in fretta a reinventare il modo di fare scuola, spesso senza supporti didattici adeguati, senza linee guida chiare, provando a garantire a tutti gli studenti le stesse possibilità, anche in famiglie senza Internet, senza computer o con un telefono da dividere tra più figli. Stare a casa, lavorando e studiando, ha insomma evidenziato ancora una volta che non siamo capaci di garantire a tutti gli stessi diritti.
Non mi stupisce che lo smartworking invada ogni momento della sua quotidianità, cara Laura, perché intuisco che lei è una professoressa di cuore. Mi stupirebbe se, superata questa emergenza, non mettessimo mano a tutto ciò che ancora in Italia non funziona. Poi penseremo a rinnovare il lessico.