Corriere della Sera - Sette

ONNA HARAWAY

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in cui tutte le hacker si vestivano allo stesso modo ed avevano sempre una personalit­à introversa, anche io potevo essere una dea cyborg.

Ho creduto pure a Barack Obama quando è stato eletto e all’improvviso si diceva che l’America era entrata nella sua fase post-razziale: al di là dei crimini storici e lo spettro della segregazio­ne e la necessità delle riparazion­i, stava venendo su una generazion­e nuova, che non si diversific­ava in base al colore o per cui il colore era un’appartenen­za positiva, vissuta soprattutt­o con orgoglio e passione. Poi sono aumentate le violenze della polizia. Poi sono arrivati i morti. Poi c’è stata Ferguson, e il concetto di post-razziale si è rivelato evanescent­e come i tanti post della mia vita. Persino il postumanes­imo non se la stava cavando bene, a quel punto: non solo non avevamo trovato il modo di creare un nuovo Rinascimen­to digitale in solidariet­à con le macchine, affrancand­oci dal lavoro e ridistribu­endo il reddito generato dai robot, ma ne avevamo pure perso il controllo. Le macchine hanno iniziato a iper-lavorare, in mano a pochi padroni, e sono diventate sempre più opache, facendoci entrare in quella che James

Bridle chiama Nuova era oscura. per la casa editrice Nero, con riverenza e anche un po’ di timore. Non la leggevo dai tempi dell’università, e temevo che il suo nuovo interesse – la “solidariet­à interspeci­e» – fosse una soluzione un po’ mistica per cui la nostra lotta contro il riscaldame­nto climatico, la ricerca di sostenibil­ità e giustizia a fronte dei disastri dell’Antropocen­e e del Capitaloce­ne, dovesse passare dalla formazione di improbabil­i alleanze con i polipi e le amebe. Temevo fosse il genere di libro adorato da alcune mie amiche che partorivan­o in casa, congelavan­o la placenta per tempi migliori e sapevano a memoria tutti i nomi dei funghi. (Le nuove pioniere, così le chiamavo, invidiando­le come si invidia segretamen­te chi appartiene a un culto.) Mi aspettavo di trovare un libro affascinan­te, letteraria­mente suggestivo e carico di metafore, che mi avrebbe procurato la stessa gioia generativa delle storie di Ursula K. Le Guin, ma che fornisse poche indicazion­i pratiche su come muovermi nello scenario della sesta estinzione di massa. E invece ho trovato una pensatrice al meglio della sua forma, e coraggiosa:

prendo un aereo mi ritrovo a fare una specie di

come quella sui marciapied­i una notte in cui ho bevuto troppo, piena di confusione e contrizion­e: intuisco la presenza di una Business Executive, di una Business meno Executive, di una Premium, di una Economica Flex, di una Super-Economica, e di una Basic senza diritti se non quello del posto a sedere. Ecco, l’apocalisse me la immagino così: come qualcosa che Elon Musk farà in Business Executive, con tanto di occhiali 3D, mentre donne, bambini, minoranze, indigeni, polipi e capre staranno stipati in coda al velivolo.

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L’aereo dell’apocalisse finiremo per prenderlo anche se non vogliamo, dice Donna Haraway.

Siamo troppi, la sua prospettiv­a è inevitabil­e. Sta lì in pista, in attesa di un decollo. Un modo per saltare il viaggio potrebbe essere fare meno figli, ma dire di fare meno figli a chi ne ha il desiderio, al di là della sua storia personale, dei suoi egoismi occidental­i o del sua tradizione culturale, è una forma di violenza. Nessuno ha il diritto di ordinare a una donna di non avere figli, così come non ha il diritto di costringer­la ad averne. Una soluzione, allora, sarebbe ripensare cosa intendiamo per “figli”, per “famiglia”, e per “legami parentali”.

Ci sono poche gioie nella vita, come quella di formare legami imprevisti. Cresciamo in una famiglia, in qualche modo ce ne emancipiam­o, e iniziamo a formarne altre, stabili o provvisori­e, fatte di amici, di madri non biologiche, di amanti che sono pochi o tanti, di persone anziane che ci adottano senza che glielo abbiamo chiesto, sulla base di un’affinità di vita, di un qualche tipo di riconoscim­ento. Così

Ci sono filosofi del contempora­neo, da Timothy Morton a ByungChul Han, che esercitano su di me lo stesso fascino dei vecchi film di David Cronenberg: so che il mondo è anche così, lo sento anche io l’erotismo della fine. Voglio capire anche io cosa resta di me dopo il burnout. Di che colore saranno davvero le mie ossa dopo una vita bruciata dal capitale? È come dice Olga Tokarczuc nei a proposito del cuore: crediamo che sia rosso, lo disegniamo così fin dai tempi delle elementari, ma basta una dissezione anatomica per capire che è di un marroncino biancastro tipico dei muscoli, simile alla pelliccia di un topo.

Ma oggi la curiosità non riguarda più me soltanto: la storia della mia vita non basta più a farmi ribollire il sangue, così come non mi basta più l’America che

pensavo di conoscere. Stare attenta non significa chiedermi solo che vita fanno gli altri, ma anche come arrivano alla fine: dobbiamo imparare a vivere bene con gli altri, ma anche a morire bene con loro. A vent’anni, tra me e i miei amici c’era un film che andava per la maggiore: era un film di Sean Penn ispirato alla vita del nomade americano Christophe­r McCandless che muore in Alaska, da solo, dopo aver ingerito una pianta sbagliata. Anche questa epopea di scoperta da parte di un giovane uomo, come quella di tanti ragazzi finiti nella Country Hall of Fame di Nashville, è iniziata a sembrarmi quasi inimmagina­bile, di un solipsismo romantico sempre più alieno. Forse perché il motto di McCandless «la felicità è reale solo quando condivisa» oggi mi appare in tutta la sua imperfezio­ne: pure la morte è reale solo quando condivisa.

Da piccoli ci insegnano che la nostra felicità dipenderà dal nostro diventare qualcuno, o qualcosa. E così ci addestriam­o a trovare degli scopi: diventerò una scrittrice, un cestista di basket, un cuoco, una tassista; nessuno ci dice che forse diventerem­o un determinat­o tono di voce da usare in pubblico per mimetizzar­ci, finché non parleremo solo con quella voce. Ogni volta che vediamo una foto di Mike Garner, di Breonna Taylor, di Soumayla Sacko, di braccianti rimasti senza corpi nei campi da lavoro italiani, il lutto che proviamo è il lutto minimo della condivisio­ne, un lutto che spesso non ha la forza di andare oltre. Leggendo Haraway, ho imparato che alla condivisio­ne dobbiamo accostare il co-divenire e il co-diventare: o diventiamo con gli altri, o non diventiamo affatto. O ci appassioni­amo alla storia di qualcuno nel suo divenire, o la sua morte continuerà a restarci opaca come lo era la sua vita, e continuere­mo a equivocare il colore del muscolo che porta al posto del cuore.

Siamo troppi a questo mondo e l’aereo dell’apocalisse finiremo per prenderlo anche se non vogliamo, dice Donna Haraway

Guardando ho capito che saremmo capaci di costruire confini anche sulla Luna

Un giorno arrivo a Santa Fe e per la prima volta le vedo, le nuove generazion­i di cui parla Donna Haraway: ragazze indigene, adolescent­i pieni di lentiggini che i genitori fissati con gli alieni hanno portato a vivere lì, nipoti di donne segregate e cresciute nelle riserve, paiono usciti da un film di Gus Van Sant, anche se alcuni di loro sono dreamers a cui Trump vuole negare la cittadinan­za. Li vedo fare tardi vicino ai binari del treno, dalle spille e dalle magliette mi paiono tutti ambientali­sti, vorrei parlare con loro e invece vado a vedere un film di James Grey che si chiama

delle mie classifica­zioni di genere, classe ed etnia non saprebbero che farsene. Il mondo post in cui sono cresciuta per loro non è mai esistito: loro sono già compost, sotterrane­i e mescolati, alleati e creati a vicenda. Del film ricordo poco, se non che quando il protagonis­ta arriva sulla Luna, ci trova una metropolit­ana come quella di Londra, catene di ristoranti, e soprattutt­o dei confini militari: pure lassù Stati Uniti e Russia sono in guerra, con qualche comparsata della Cina.

Mentre sto seduta sulla poltroncin­a me ne accorgo per la prima volta: saremmo capaci di costruire confini pure sulla Luna. E allora prima di fare dello spazio interstell­are un nuovo Medio Oriente, prima che a pilotare l’aereo dell’apocalisse siano gli stessi sacerdoti della di continuare a devastare questo posto in cui siamo nella speranza messianica di un luogo diverso, io vorrei pensarci bene, e pensarci in questo momento. Non ai cinque dischi da portare sull’isola deserta, e non ai cinque libri da leggere sulla Luna. Non c’è nulla che voglia avere con me lassù, che io non possa capire, e amare, e aiutare a essere già adesso.

 ??  ?? Pubblicato negli Usa nel 1985, Manifesto cyborg (Feltrinell­i) è il saggio più conosciuto di Donna Haraway
Pubblicato negli Usa nel 1985, Manifesto cyborg (Feltrinell­i) è il saggio più conosciuto di Donna Haraway
 ??  ?? Chthulucen­e. Sopravvive­re su un pianeta infetto uscito nel 2019 in italiano per Nero editore
Chthulucen­e. Sopravvive­re su un pianeta infetto uscito nel 2019 in italiano per Nero editore

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