TERZO TIPO»
«Enough is enough». Alle tre di notte squilla il telefono. Una voce profonda, dal tono suadente, anche quando inizia e poi prosegue con parole nette su quel che sta accadendo in America. Quando è troppo, è troppo, sarebbe la traduzione più vicina. La prima domanda che gli avevamo inviato riguardava George Floyd. «L’Nba sta per ricominciare, ma non è che riprendere a far canestro significhi farci stare zitti. Dobbiamo essere tutti pronti, e lavorare insieme per creare un cambiamento che oggi più che mai è necessario. Questo è il momento».
Elogio del sesto uomo. Qui lo chiamerebbero rincalzo di lusso, dall’altra parte dell’oceano danno un premio apposta per chi esce dalla panchina a partita già cominciata, e la cambia. Andre Iguodala ha provato a essere una stella del basket Nba. Non ci è riuscito, confinato sempre nel ruolo dello specialista difensivo. Poi è finito ai Golden State Warriors, e quel genio di coach Steve Kerr lo ha convinto al passo indietro. Sono arrivati tre titoli, il premio di miglior giocatore della Finals, un posto nel pantheon del basket per uno dei giocatori più intelligenti della lega. Come attore non protagonista, ma chi lo ha detto che bisogna essere tutti delle stelle? E pazienza se così si intitola e non potrebbe essere altrimenti la sua autobiografia, appena pubblicata da add editore, ha una conoscenza relativa del fuso orario italiano. «Sono favorevole e applaudo a ogni protesta, meglio se pacifica. Non è solo la comunità di colore a farlo, ormai. Ci sono tanti altri che stanno scendendo nelle strade. Stanno capendo tutti che è il momento di dire basta al razzismo, dichiarato o strisciante, della società americana. Per cambiare davvero».
Quando ha incontrato il razzismo per la prima volta?
«Sono nato a Springfield, nell’Illinois. Quello che oggi la gente chiamerebbe un ghetto dei neri. E dove ieri, nel 1908, un gruppo di persone di colore venne massacrato, condannato e impiccato, per crimini che non aveva commesso». Non è un esempio troppo lontano nel tempo?
«L’errore giudiziario, chiamiamolo così, è stato riconosciuto solo un secolo dopo, nel 2008. Perché tutto questo tempo? Mia nonna mi disse una volta che Springfield era un posto dove se non fossi stato attento, avresti rischiato di rimanerci per sempre. Ecco la definizione di ghetto».
Lei come ne è uscito?
«Applicando regole che non avevo scelto io, imparando a stare in equilibrio. Da una parte dicevo sissignore, nossignore, come la gente ci immagina, e dall’altra intanto pensavo che non avrei mai permesso a nessuno di mancarmi di rispetto».
È stato difficile?
«Lo è ancora, perché tutti noi