«HO SMESSO DI PIANGERMI ADDOSSO»
In un mondo di bruti, Matteo Berrettini è un tennista gentile. Qui lui ci interromperebbe: «Prima l’uomo del tennista». E ha ragione, Matteo, perché quello che siamo ce lo portiamo dappertutto. In ufficio, a scuola, nella cabina di pilotaggio di un aereo, in campo. Anche i servizi a 200 all’ora di Berrettini (il romano è uno dei battitori più potenti del circuito) sanno della dolcezza del Ponentino che gli ha accarezzato i muscoli da bambino e della rassicurante unione della famiglia che l’ha cresciuto nel quartiere del Nuovo Salario, il più piccolo rione di Roma.
Con occhi buoni e colpi robusti, alla velocità di 24 anni e 196 cm d’altezza, Matteo ha scalato le gerarchie del tennis (è n. 8 del ranking, alle spalle ha tre titoli, una clamorosa semifinale all’Open Usa 2019 e l’università delle Atp Finals) senza mai perdere di vista chi è, da dove viene, quali sono i valori che lo innervano. Ecco perché una chiacchierata con lui, soprattutto oggi che proviamo a immergerci insieme sotto la superficie schiumosa di un mare apparentemente calmo, non è mai banale.
Matteo da quali segnali si capisce di aver bisogno di un aiuto chiamato mental coach?
«Da un’irrequietezza di cui si è accorto per primo il mio coach, Vincenzo Santopadre. Vorrei conoscessi questo professionista, si chiama Stefano Massari, mi ha detto un giorno. Parlaci, poi mi dici che ne pensi».
Ne ha pensato bene.
«Ero in un momento in cui faticavo a gestire i momenti difficili: mi piangevo addosso, mi fustigavo per qualsiasi cosa. Il mio processo di crescita è partito da lì».
Fidarsi di uno sconosciuto richiede coraggio o incoscienza?
«È un rapporto che nasce da una buona sensazione, poi si costruisce. Io con Stefano mi sento libero di parlare a 360 gradi: ha capito subito la persona che sono, la mia profondità. Mi è piaciuto che gli interessasse Matteo, non Berrettini il tennista».
O vinci o impari. È vero? Anche a lei è successo di imparare a vincere?
«La mia esperienza è che dalle sconfitte impari molto di più che dalle vittorie. Perdere mi dà la voglia di andare a correre, tornare in palestra, perfezionare i colpi. Perdere mi fa arrabbiare di brutto». Faccia un esempio.
«Da ragazzino giocavo questo torneo giovanile, il Bonfiglio, a Milano. Sprecai 12 match point e uscii sconfitto. Qualificazioni Australian Open 2018, due match point buttati, stessa solfa. Quando lo schema si ripete è necessario analizzare le scelte, entrare dentro le decisioni». Open Usa 2019, quella bellissima cavalcata fino alla semifinale. Ricorda l’emozione più forte dopo aver battuto il francese Monfils nei quarti?
ha sperimentato la convivenza con la sua fidanzata Ajla Tomljanovic. Come è andata?
«Tra alti e bassi, è stata un’esperienza bella e intensa. Ho capito che ho i miei meccanismi mentali, come tutti: l’errore iniziale è stato pensare che Ajla affrontasse le cose come me, alla mia maniera. Invece esistono mille modi di reagire e comportarsi. E se per una volta una cosa non è fatta alla perfezione, come pretendo io, pazienza. L’elasticità, a un tipo metodico e preciso, non viene facile».
Piccole nuove consapevolezze da trasferire nel tennis.
«Esatto, privato e carriera comunicano in continuazione. Tutto si trasferisce, tutto serve a tutto». Cosa ruberebbe ai Big Three?
«A Federer l’agilità: non è mai scomposto, sembra un ballerino. A Nadal la cazzimma, quell’agonismo pazzesco su ogni punto. A Djokovic la risposta al servizio».
Ha 24 anni appena compiuti ma non è molto social. Perché?
«Non sono per la condivisione troppo intima, non fa per me. Non me ne frega niente, per dire, se stamattina hai cambiato il pannolino a tuo figlio. Non sento l’esigenza di ostentare, mostrare, raccontare, commentare tutto. Sui social manca spesso autenticità. A me basta che chi mi vuole bene mi conosca per quello che sono».
Il suo sogno più sfrenato?
«Alzare un trofeo importante, uno Slam o a Roma, la mia città. Fare in modo che il tennis resti una passione e non diventi un lavoro. Continuare a far stare bene le persone intorno a me. Bastano?».
Eccome.
«Ah, ne ho ancora uno».
Prego.
«Non perdere mai la mia normalità».