Il mio quaderno dal lockdown, recinto di pace per noi smarriti
E adesso che siamo (quasi) liberi tutti, (quasi) del tutto? Perché e da che cosa all’improvviso ci sentiamo davvero prigionieri? Per quanto mi riguarda, purtroppo o per fortuna, mi ero accorta di quanto liberi potesse farci sentire la prigionia del lockdown anche mentre lo vivevo.
Tutto è cominciato quando a metà marzo ho smesso di lavorare al romanzo che, fino al fatidico discorso di Conte, mi si svegliava nella testa prima che mi svegliassi io e dopo di me si addormentava: ma ho sempre pensato che avesse ragione Pasolini, quando diceva che niente potrà mai essere necessario a chi lo legge se prima non è stato necessario a chi l’ha scritto. Fatto sta che improvvisamente di quei personaggi non mi interessava più niente.
Mi interessavano solo quei due numeri che ogni sera arrivavano con il telegiornale delle otto e che continuavano a crescere.
Mi interessava capire cos’è che dal nove marzo continuavamo a chiamare tempo, anche se al tempo così com’eravamo abituati non somigliava per niente.
Cos’è che chiamavamo spazio. Casa, cielo, strade. Qui Dentro. Là Fuori. Finché queste ultime due espressioni hanno cominciato a ossessionarmi.
Così ho ripreso a scrivere, ma tutt’altro dal romanzo a cui stavo lavorando.
E per la prima volta da quando, ormai vent’anni fa, ho avuto la fortuna di trasformare la mia passione nella mia professione, non l’ho fatto pensando che quello che scrivevo sarebbe diventato un libro che prima o poi avrebbero letto anche altre persone: tant’è che Come il mare in un bicchiere, anche se da oggi è in libreria, l’ho vissuto e continuo a viverlo come un quaderno. Una ricerca, più che un’opera con un inizio e una fine.
Qualcosa che non solo mi si svegliava nella testa prima che mi svegliassi io e dopo di me si addormentava. Ma che, nel frattempo, mentre incalzava quest’incredibile primavera, mi ha permesso di rinunciare alle risposte che assieme a quei due maledetti numeri ogni sera aspettavo e di appuntare (come se lo facessi a matita e su un quaderno, appunto: timidamente) le domande giuste. Giuste per me, intendo. E per chi, come me, giorno dopo giorno, barricato nel suo Qui Dentro, sentiva salire quella specie di misteriosa, qua
si vergognosa pace. Per Daniela, Pierantonio, Ludovica: persone che Là Fuori si sono sempre sentite smarrite. Persone che ho conosciuto grazie a VolontAriaMente, un’associazione che ogni sabato mattina accompagna in giro per Roma, per musei o mostre o semplicemente a passeggiare senza nessuna meta, pazienti che sono ricoverati in una struttura psichiatrica o che sono appena usciti e da una parte non vedevano l’ora di farlo, dall’altra non sanno da dove cominciare per avere voglia di quello che gli ha fatto così tanta paura da costringerli a scappare: il mondo. Persone che però, durante il lockdown, nonostante le nuove regole, anzi: proprio grazie a quelle regole, hanno trovato fatalmente un centro. Mi telefonavano e mi parlavano, allegre, delle nuove ricette che stavano imparando. Dei libri che leggevano, dei pensieri con cui si tenevano compagnia.
E mentre le ascoltavo, più che mai mi sentivo simile a loro.
Perché come loro segretamente protetta da quell’isolamento, da quei due metri di distanza dagli altri da rispettare che di colpo mi ricordavano che è nostro, solo nostro il potere di decidere a chi e a che cosa stare vicini e da chi e da che cosa tenerci lontani.
Siamo noi a stabilire quella vicinanza, quella lontananza: e com’è che invece, prima di tutto quello che ci ritrovavamo a vivere, me l’ero dimenticato?
Com’è che ce l’eravamo dimenticato tutti? Che la scelta è solo nostra, che si può dire a una persona tu per favore stai a un metro e mezzo da me, grazie, tu a sette, tu a tremila: addio, tu invece vieni qui, forza: baciami. Ci eravamo dimenticati che ci si può difendere. Ci si può fermare (due metri) prima di finire in un frullatore pazzo che non sai come si spegne e dove tutto si mescola velocissimo e sei sbattuto contro quella persona, quell’impegno, quell’altra persona, mentre il tuo telefono continua a squillare, arriva un’altra e-mail, arrivano 17 messaggi su Messenger, e anche se qualcuno, qualcosa, magari ti interessa davvero, rischi di non rendertene nemmeno conto, preso come sei a pregare perché un angelo stacchi la spina di quell’aggeggio e ti salvi dal suo violento, incomprensibile frullare.
Che però è il tuo violento, incomprensibile frullare.
Quindi?
Quindi doveva ammalarsi il mondo, per permettere alle persone più fragili che conosco, e a me per prima, di sentirsi tutto sommato bene?
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