Se lo smart-carcere a voi sembra virtù
Non so quando, non so come, ma prima o poi ci pentiremo di questo smodato elogio dello smartworking, di questa necessità carceraria trasformata in virtù moderna, questo incapsulamento domiciliare salutato come la nuova frontiera del futuro lavorativo.
Se ne approfitteranno, vedrete, perché lo smartworking costa meno e chi ha in mano le cifre del costo del lavoro lo sa bene, ma per il momento ci sentiamo proiettati in una dimensione di “tendenza”: e poi vuoi mettere la differenza tra il sofisticato smartworking e il provinciale lavoro da casa? Ce ne pentiremo. Ci pentiremo di questa trasformazione di una condizione di emergenza nel nuovo modo di lavorare. Perché il lavoro era rimasto praticamente, assieme alle curve degli stadi ora desertificati causa virus, e ai bar per gli aperitivi criminalizzati dai sacerdoti del distanziamento sociale, l’unico luogo di socializzazione in un universo parcellizzato, atomizzato. “Distanziato”, se così si può dire.
Il luogo di lavoro, quando non è un antro di schiavitù come una miniera, oppure un incubo alienante come la fabbrica raffigurata da Charlie Chaplin in Tempi moderni, è un luogo di conoscenze, di scambio, di contatto sociale, di vicinanza. Nei luoghi di lavoro si imparano tante cose del mondo, si conoscono persone, si intrecciano amicizie, nascono flirt e amori, e anche tradimenti (senza farsi vedere troppo, altrimenti il capufficio richiama all’ordine).