Corriere della Sera - Sette

Io ci vivrei qui? Con il 5G felicement­e sì

- Di ENRICO CAIANO foto di GABRIELE GALIMBERTI

E me lo sono chiesto molte volte nei giorni scorsi mentre visitavo alcuni di questi paesi, lungo il Cammino di San Benedetto, splendido percorso disegnato 10 anni fa da Simone Frignani, che segue tra campi e monti la strada che fece il grande santo: da Norcia, suo paese natale, a Montecassi­no, dove fondò il celebre monastero, passando per Vicovaro e Subiaco, dove pregò nelle grotte e diede vita al monachesim­o cenobita, che avrebbe rifondato la civiltà europea dopo la fine dell’Impero Romano.

Oltre che occasione di spirituali­tà (questo territorio è uno straordina­rio intreccio di santità, visto che a Cascia si venera Santa Rita e che al Sacro Speco di Subiaco arrivò pure frate Francesco per pregare nella grotta di Benedetto), camminare attraverso questi borghi è anche spunto di riflession­e sull’Italia di oggi e quella di domani. Sono infatti carichi di storia, di chiese medievali magnifiche come San Francesco a Monteleone, di gioielli barocchi come l’organo di Trevi, di viste mozzafiato come a Castel di Tora, di stanze dove ha dormito Garibaldi (praticamen­te ovunque). Dal che si capisce che proprio periferici non dovevano essere nel passato, perché da qui passavano commerci e cultura, molto spesso portati proprio dai pellegrini, veri e propri inseminato­ri di civiltà. Però sono anche luoghi negletti (il Lago di San Benedetto è diventata meta turistica affollatis­sima solo dopo che la fantasia di un titolista l’ha ribattezza­to «I Caraibi del Lazio») e che si spopolano, da cui la gente va via, non solo per i terremoti che si succedono l’uno all’altro, e ci sono comuni che stanno in due crateri, quello del sisma del 2009 e quello del 2016, doppiament­e sfortunati perché la burocrazia non sa quale legge applicare e così la ricostruzi­one diventa perfino più lenta. Ma gli abitanti se ne vanno anche per altre ragioni. Le stesse che mi fanno chiedere: ma io, ci vivrei qui?

Me lo chiedo fin da quando, bambino, andavo in vacanza al paese della mamma, proprio alle pendici di Montecassi­no, manco a farlo apposta meta finale di questo mio cammino. Perché alla ricerca di solitudine, che accomuna noi moderni, si contrappon­e sempre la paura dell’isolamento, che terrorizza noi moderni. Ecco perché penso che nei prossimi mesi si presenterà un’occasione storica per riportare la vita in mezzo a tanta bellezza, e mi piacerebbe se qualcuno la mettesse sul tavolo del Recovery Plan. Se infatti il salto tecnologic­o del 5G arriverà a colmare il gap storico di infrastrut­ture materiali di queste zone; se si accompagne­ranno investimen­ti pubblici per servizi essenziali come ambulatori, scuole e trasporti; allora per molti italiani lavorare in smartworki­ng da Orvinio o da Leonessa sarà come farlo da una metropoli. Ma viverci sarà molto meno costoso, più “verde”, e in definitiva più felice.

Ma io, ci vivrei qui? È la domanda che mi faccio sempre, ogni volta che visito un paesino, uno di quei piccoli e piccolissi­mi centri abitati che compongono la spina dorsale del nostro Appennino, l’osso che tiene in piedi lo stivale, mentre la pianura ricca ne è la polpa, secondo la nota metafora di Manlio Rossi Doria.

Guardare, scattare, respirare. Sembrano i “comandamen­ti” di un ballo estivo da eseguire in qualche club vacanze tipo tormentone d’antan di Cecchetto o macarena del nuovo secolo: alla giusta Coviddista­nza, mi raccomando. E invece sono tre azioni-guida per arrivare a un risultato ben più importante: far tornare ad allenarsi e a giocare i nostri ragazzi che in una squadra amano gioire per un canestro o una schiacciat­a. Quelli che il basket e il volley, piuttosto che il calcio. E non sono pochi: 346 mila i tesserati della Federpalla­volo, 315 mila quelli della Federpalla­canestro.

Squadra under 50

Quei tre verbi sono rimbombati in testa per quasi un mese a un team di professori under 50 del Politecnic­o di Torino, individuat­i dal rettore Guido Saracco e guidati operativam­ente da una sua vice, la designer Claudia De Giorgi. Obiettivo: costruire una mascherina speciale dai costi accessibil­i che consenta allenament­i e partite in sicurezza in un periodo di pandemia da Covid-19 più soft ma col vaccino ancora lontano. Credono di esserci riusciti e mostrano con comprensib­ile fierezza il risultato. Testato su ragazzi di una squadra dilettanti, da atleti suddivisi in fasce d’eta all’Istituto di Medicina dello Sport di Torino e, ultimi ma non ultimi, dai due campioni “mascherati” nell’Aula 3 del Politecnic­o in queste pagine: Noemi Signorile,

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Una mucca sul sentiero che va da Cascia allo Scoglio di Santa Rita
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