IL COVID-19 SECONDO I POLITICI
Sottovalutazioni clamorose come quella di Zingaretti («Andiamo a bere un aperitivo»), Sgarbi («Solo un raffreddore») e Fontana («Voglio vedere Juventus-Inter»), ma anche estremisti del lockdown come a casa De Luca. Il meglio di gaffe e scivolate di chi è caduto nelle trappole dell’emergenza
Mancava solo il «dicesi» iniziale, quella parolina poco magica che ha accompagnato milioni di studenti all’appuntamento con altrettante interrogazioni andate a male. Quel «dicesi» utilizzato per prendere tempo, per avere qualche secondo in più di respiro, quel «dicesi» seguito dall’oggetto stesso della domanda dell’insegnante, «dicesi tettonica a zolle», «dicesi teorema di Talete», «dicesi paradosso di Zenone», e poi imboccavi senza ritorno la strada verso un’insufficienza sul registro.
L’assessore
Ecco, quando il 24 maggio scorso Giulio Gallera si è messo a spiegare ai cittadini lombardi l’indice di contagio «R», fissato in quella giornata a 0.51, l’ha messa con la stessa cifra stilistica dello studente destinato al 4 in pagella, risparmiando giusto il «dicesi»: «Zero cinquantuno cosa vuol dire? Che per infettare me bisogna trovare due persone infette nello stesso momento. E non è così semplice trovare due persone infette nello stesso momento per infettare me…», scandisce l’assessore alla Sanità della Regione Lombardia. Che poi, convinto di aver imboccato la strada giusta, completa l’opera: «Quando (l’indice, ndr )è a 1 vuol dire che basta per trovare una persona infetta che mi infetto anche io».
Due errori di quelli che qualsiasi virologo avrebbe consumato l’inchiostro di una sola penna rossa, a furia di sottolinearli. Anche perché il 24 maggio è noto e arcinoto a tutti, da almeno un mese con certezza pressoché granitica, che a prescindere dall’indice basta una sola persona infetta per trasmettere il virus. Una e una sola, avrebbero detto i matematici.
Nel variopinto bouquet di strafalcioni all’epoca del Covid-19, di quelli che si catalogano assegnando alla dichiarazioni di febbraio un carico di attenuanti generiche dovute al fatto che all’inizio della pandemia sbagliava persino l’Organizzazione mondiale della sanità, non manca praticamente nessuno. Il 27 febbraio, rispondendo all’appello del sindaco di Milano Beppe Sala a proposito della campagna su Milano che non doveva fermarsi (Sala si è scusato a più riprese, nei mesi successivi), Nicola Zingaretti si presenta sotto il Duomo armato da una spasmodica voglia di un aperitivo in compagnia. «La nostra economia è più forte della paura: usciamo a bere un aperitivo, un caffè o per mangiare una pizza», scriveva su Instagram il governatore del Lazio e segretario del Pd. Anche lui, sia chiaro, nelle settimane successive ha ammesso l’errore, che lo trovava tra l’altro in perfetta compagnia di fior di virologi; tra
questi però non c’era Roberto Burioni, che saltava sulla sedia tutte le volte che – tra febbraio e marzo – un sindaco o un governatore regionale avevano l’alzata d’ingegno di proporre adunate, mostre, happening e vernissage di ogni ordine e grado, pur di tornare sentire il rumore dei registratori di cassa di locali o musei.
Al governatore lombardo Attilio Fontana, il primo rappresentante delle istituzioni italiane a mostrarsi al grande pubblico indossando la mascherina (venne scambiata per una gaffe ma non lo era, questa), era venuto in mente di immaginare un mondo in cui la pandemia (all’epoca scambiata per un’epidemia) sarebbe sparita nel giro di qualche ora e il campionato di calcio avrebbe potuto andare avanti come se nulla fosse, con gli stadi affollati di persone. Ai primi di marzo, l’esponente della Lega si trova addirittura in un regime di isolamento a scopo precauzionale perché una sua collaboratrice è risultata positiva al primo tempone. Mancano pochi giorni a JuventusInter, che poi si sarebbe giocata a porte chiuse. E lui, intervistato alla radio, addirittura prenota un posto nella tribuna d’onore dell’Allianz Stadium: «Spero che da oggi ci sia una regressione della diffusione così domenica vado a vedere il big match. Monitoriamo la situazione. Sono molto tranquillo».
In Veneto, nel frattempo, il suo collega Luca Zaia – che la storia delle settimane successive avrebbe riabilitato, ascrivendolo al rango di quelli che hanno meglio gestito l’emergenza, insieme all’emiliano Stefano Bonaccini – accusa i cinesi: «Sapete perché in una settimana noi abbiamo solo 116 casi positivi, di cui 63 non hanno sintomi e stanno bene? L’igiene che ha il nostro popolo, la formazione culturale che abbiamo, è quella di farsi la doccia, di lavarci sempre le mani». Al contrario la Cina, ipse dixit, «ha pagato un grande conto di questa epidemia perché comunque li abbiamo visti tutti mangiare topi vivi o questo genere di cose». Apriti cielo.
Il «giapponese»
Se i cinesi si indignano per le frasi di Zaia, che poi si scuserà, a qualche centinaio di chilometri di distanza Vittorio Sgarbi veste i panni dell’ultimo giapponese del negazionismo da Covid-19. Il deputato e critico d’arte non usa eufemismi e come al solito non le manda a dire: «Non credo al coronavirus, ci deve essere qualche cosa dietro, non possiamo cambiare la nostra vita per qualcuno a cui è venuto il raffreddore. Non è un ca..o, dovete andare a fare in c…, chi ca..o è Conte?». E via dicendo.
Al Centrosud, a metà marzo, s’avanzano gli ultra-ortodossi del
lockdown. Lo scettro del leader riconosciuto e riconoscibile di questa corrente di pensiero tocca senz’altro a Vincenzo De Luca, il governatore campano che inchioderà nella leggenda la minaccia di rispondere alle ipotetiche feste di laurea con l’uso del lanciafiamme. Prima attacca sulla Festa del papà: «C’erano buontemponi che vendevano le zeppole di san Giuseppe, che portavano in omaggio le zeppole con una bella crema condita al coronavirus. La bestialità totale». Poi, di fronte alle indiscrezioni che gli arrivano dal mondo accademico partenopeo, l’affondo rimasto nella storia: «C’è una stagione di lauree, avremo centinaia di ragazzi che si laureano. Mi arrivano notizie che qualcuno vorrebbe preparare la festa. Vi mandiamo i carabinieri, col lanciafiamme».
E visto che si pecca in pensieri, parole e opere, certo, ma anche in omissioni, Matteo Salvini prenderà di mira De Luca quando quest’ultimo ometterà di intervenire dopo gli assembramenti a Napoli per la celebrazione per la vittoria di Coppa Italia della locale squadra di calcio. «Dov’è finito il lanciafiamme?». Il leader della Lega, che difenderà il fantomatico diritto di scattare selfie senza mascherina persino in diretta tv da Giovanni Floris, troverà anche il modo di rispondere a suo modo alle linee del ministero dell’Istruzione sul rientro a scuola di settembre: «Io, mia figlia di sette anni a scuola in un’aula buia e con la mascherina non la mando».
Le precauzioni
Già, perché le precauzioni attivate a cavallo tra le diverse fasi dell’emergenza Covid-19, a volte, possono confondere anche chi non appare confuso. È il caso della governatrice calabrese Jole Santelli,
che accoglie l’ipotesi dei termoscanner per la rilevazione della temperatura corporea nelle spiagge con un misto di scetticismo e irrisione. «Se misuriamo la febbre a 40 gradi all’ombra, secondo voi chi non avrà 37 di temperatura?».
Paragoni
Ragionamento che non avrebbe fatto una grinza se riferito, per esempio, ai rettili in generale, alle lucertole, forse ai serpenti. Ma che applicato agli esseri umani non ha un solido fondamento scientifico. In fondo, è un po’ come nelle vecchie interrogazioni che andavano male, quando la granitica convinzione di una teoria o di un concetto ti mandavano a sbattere contro un 4 impresso con l’inchiostro sul registro di classe. Quelle interrogazioni che iniziavi con «dicesi», appunto. Col caro, vecchio, «dicesi».