QUELLI COME ME CHE RINVIANO SEMPRE: VULNERABILITÀ PSICOLOGICA O ABILITÀ CREATIVA?
malattie psicosomatiche e prestazioni inferiori. Dall’altra parte, altre ricerche mostrano che non tutti i ritardi hanno risultati così catastrofici e una procrastinazione moderata, durante la quale si pianificano e raccolgono informazioni, è utile all’approfondimento e stimola il pensiero creativo.
Mi sarei accomodata volentieri nel “pensiero creativo”. Però, presa dal panico indagatorio della procrastinatrice seriale, ho chiesto lumi alla mia ex analista, Enrica Quaroni, di scuola sistemica: «Esiste un procrastinare vicino alla patologia e un altro che è affermazione di un bisogno di riflessione sulle scelte, di ponderazione o anche di tempo per sé», mi ha spiegato. «Chi procrastina a volte segnala, agli altri e a sé, un bisogno di sfuggire all’ansia di prestazione dei nostri tempi
emanifesta una necessità di tempi diversi. È noto che Kafka perdeva ancora molto tempo dopo la sua quotidiana pennichella pomeridiana, però di notte quando si metteva a scrivere produceva e Abbiamo poi discusso su una serie di atteggiamenti “ecologici” della mente da adottare, cominciando a valutare come e quanto l’evitamento, se è continuo, metta a disagio. In quel caso ci si può motivare e darsi una mossa costruendosi una rappresentazione sensoriale che chiarisce l’obiettivo, focalizza un tempo per realizzarlo, magari spezzettandolo in compiti minori, e proietta come si sta e ci si sente a obiettivo raggiunto.
Ho voluto poi andare alle radici. E ho chiamato Nicola Canessa, docente allo Iuss di Pavia: «Le nostre decisioni e le azioni che ne derivano
nascono dall’equilibrio tra impulsi generati da strutture cerebrali profonde che, sulla base delle esperienze passate, ci spingono a due comportamenti: cercare stimoli che con maggiore probabilità ci porteranno a gratificazione o emozioni positive. E qui entra in gioco la dopamina. Oppure cercare di evitare quelle esperienze che potrebbero portarci emozioni negative, prefigurandoci qualcosa che ci genera paura o ansia. E qui entra in gioco l’amigdala, struttura cerebrale essenziale per la sopravvivenza perché è quella che ci consente di apprendere, quali esperienze costituiscono per noi una potenziale minaccia». Che succede quando si cerca il “brivido” della scadenza, convinti di funzionare meglio sotto pressione temporale? «La relazione tra stress e performance è ben descritta da una funzione a forma di campana», mostra il neuroscienziato «la performance aumenta fino a un certo livello di stress, ma oltre quello cala velocemente. Quindi, lavorare in condizioni di stress da scadenza funziona sì, fino a un certo punto».
E a chi “perde tempo” perché teme una performance bassa o quello che può implicare, tipico dei perfezionisti? «Deve fare i conti con l’amigdala che spinge a “evitare qualcosa di negativo”, ritardando il compito», continua Canessa. Chi cade in questi comportamenti ha un’amigdala più sviluppata e probabilmente una ridotta connettività con la corteccia prefrontale. «Anche qui funziona nel breve periodo. In seguito, quando la pressione della scadenza aumenterà, cresceranno anche le emozioni negative e l’ansia associata, producendo un calo della performance, con disturbi fisici, oltre che psicologici, e conseguenze sul piano sociale e lavorativo». La percezione dell’incoerenza tra ciò che si dovrebbe fare e ciò che si fa finisce per generare una “dissonanza cognitiva”. «Cambiare sarebbe più impegnativo», spiegano ancora le neuroscienze. «Per ridurre quel senso di incoerenza si inventano strategie di auto-giustificazione, trovando utili le distrazioni. Queste considerazioni dovrebbero spingere a ripensare ai luoghi di lavoro e all’impatto di fattori distraenti come mail, social network o continua connettività». Perché non diventi patologico, le neuroscienze concordano sull’utilità di lavorare sugli aspetti emotivi del problema (qualcuno suggerisce la meditazione) più che sull’aumento del controllo.