NÉ MASCHI NÉ FEMMINE «SIAMO I BAMBINI DAI DESIDERI PROIBITI»
L’identità è il più rischioso dei giochi, racconta in questo articolo uno scrittore che parla attraverso la propria storia: «Non siamo uomini vestiti da donna, ma una cosa nuova»
Metto lo smalto metallizzato sulle unghie e la matita nera sugli occhi, ho entrambi i lobi e una narice forati cerchietti, pendenti, amuleti
— amo le scarpe con la zeppa, le — stampe animalier, e non mi sento maschio.
È sempre stato così ma c’è voluto un po’ affinché lo capissi e riuscissi a dirlo. Ma ora lo faccio, lo riesco a fare. L’ho scritto anche, di recente, quando si faceva la conta dei finalisti del premio Strega: cinque uomini e una donna, leggevo. Sacrosanto, il problema esiste eccome. Ma non mettetemi tra i maschi, ho chiesto sui social. Non mi sento così, la parola “uomo” mi risulta inindossabile, estranea, impro
fossi già omosessuale. Ma l’identità di genere è ben più precoce. Immagine, stile, colpo d’occhio. Altro non serve, non è mai servito. In panetteria, un pomeriggio, a Rozzano, estrema periferia sud di Milano, il posto in cui sono cresciuto, prima di entrare a catechismo: a chi tocca?, a quella ragazza lì? La ragazza ero io. E poi, dieci, cento volte, al telefono: signora, signorina, mi scambiavano per mia madre. Voce da femmina, troppo dolce, acuta, corde vocali da donna, disse un giorno la foniatra ispezionandomi la gola con un sondino a fibre ottiche. Urti, shock: non per la cosa in sé, ma per la pressione esterna, i diktat del mondo. Cosa sono?, chi siamo? Siamo liberi di dirlo noi, di raccontarvelo? Sedetevi, mettetevi comodi.
Non sono maschio, non sono femmina. Sono un po’ e un po’, mezzo e mezzo
— certi giorni mi sento all’intersezione, altri proprio non ho interesse a posizionarmi sul tabellone del genere. Appartenenza alternata, intermittente. Due spiriti, direbbero gli Indiani d’America. Più leggeri delle distinzioni, refrattari alle palizzate, ai confini. La nostra natura è il transito, il movimento, provare tutto e poi restituire, lasciare giù. Idealmente: non portarci dietro nulla. Per poter sempre ricominciare – essere più sottili, permeabili, vuoti. L’identità, il più rischioso dei giochi.
Io sono omosessuale pare,
— finora ma qui non si parla di
— omosessualità: l’identità e la rappresentazione di genere sono altro dall’orientamento affettivo e sessuale. Esempio: sono tanti i gay che amano l’immaginario machista, frequentano la mascolinità tossica, amano rappresentarsi così. Muscoli, barba foltissima, palestra, sui siti per incontri scrivono: no effemminati. Non c’entra l’omosessualità, non c’è rapporto diretto: oggi anche per gli eterosessuali infatti finalmente
— questo sta diventando
— terreno di scelta, esplorazione. Si possono amare le donne e al contempo i loro vestiti, i trucchi, le forme che la tradizione ha destinato loro. Nostro, loro: è questo che per noi non ha senso. Il corpo non ci inchioda a nessuna storia già scritta. Barba e insieme rossetto, peli sul petto e glitter, persino uomini trans che partoriscono. Tutto mischiato, mescoliamo tutto
confusione, paura, orrore?
—
Il protagonista de
(Sellerio), l’ultimo folgorante romanzo di Pajtim Statovci, è un essere ibrido e nomade che, nelle prime pagine, dichiara: «Sono un ragazzo di ventidue anni, che a volte si comporta come immagina facciano gli uomini (…) e cammino esattamente come mi ha insegnato mio padre, a passi larghi e cadenzati, so bene come tenere alti petto e spalle, la mascella serrata a garantire che nessuno invada il mio territorio. E in momenti come questi la donna dentro di me arde sul rogo».
Dicevo: tutto ciò non riguarda affatto solo gli omosessuali. Nel mondo del rap, storicamente imbevuto di stereotipi polarizzanti, sessismo e omofobia, di recente è scoppiata la polemica. Ghali (etero,
«Si possono amare le donne e al contempo i loro vestiti, i trucchi, le forme che la tradizione ha destinato loro. Nostro, loro: è questo che per noi non ha senso. Il corpo non ci inchioda a nessuna storia già scritta»
fidanzato con la top model Mariacarla Boscono) è stato attaccato da Gué Pequeno per i suoi look non binari: «Un rapper vestito da donna con la borsetta mi fa ridere». Stavo per buttar giù due righe in difesa del cantante di origini tunisine cresciuto a Baggio, ma mi sono imbattuto in una sua dichiarazione di qualche tempo fa, che centra il punto e spegne ogni querelle sul tema: «Comprendo che chi è cresciuto in un contesto tradizionale e senza contaminazioni possa avere delle resistenze: in Italia abbiamo cominciato a mischiarci adesso. Quando penso a chi mi attacca mi vengono in mente quelle tribù dell’Amazzonia che vedono un drone volare e cominciano a scagliare le frecce in cielo».
Il nuovo si lascia odiare benissimo, sa farsi affronto, mette il potere dei padri a repentaglio: la nostra
sembrare una ragazza è degradante / Perché pensate che essere una ragazza sia degradante».
Fuori dall’Italia ci sono Ezra Miller, Billy Porter, Cara Delevingne, Arca, Nico Tortorella, Jaden Smith, la lista dei personaggi non conformi è lunga e poliforme. Ma anche da queste parti per fortuna non tutto tace. Di nuovo rap, trap: Achille Lauro, che della fluidità di genere sta facendo un elemento centrale del suo lavoro performativo, nel suo libro
(Rizzoli) scrive: «Indossare capi di abbigliamento femminili, oltre che il trucco, la confusione di generi è il mio modo di dissentire e ribadire il mio anarchismo, di rifiutare le convenzioni da cui poi si genera discriminazione e violenza. Sono fatto così, mi metto quel che voglio e mi piace: la pelliccia, la pochette, gli occhiali glitterati sono da femmina? Allora sono una femmina».
E attenzione: non è solo un trend, un vezzo, una questione da concorsi canori o riviste di moda. La posta in palio è ben più alta. Ghali, che è famoso e almeno in parte protetto dal successo, viene criticato dai colleghi retrogradi e finisce lì, ma che ne è dei ragazzini, sconosciuti, soli con le loro lotte di cui nessuno sa nulla, nelle città e soprattutto nelle piccole e piccolissime province d’Italia? Ancora oggi capita che la paghino cara. Presi di mira dal vivo e sui social, arrivano a trovare il mondo insopportabile. Tutto e solo male. Andrea Spezzacatena, 15 anni, di Roma, nel 2012, si è impiccato dopo essere stato a lungo perseguitato, gli avevano persino dedicato un gruppo su Facebook: Andrea il ragazzo dai pantaloni rosa. Pantaloni indecenti, abietti: io a tredici anni mi feci comprare da mio padre un paio di pantaloni scozzesi. Bianchi e azzurri. Lucenti. Un mio compagno, alle medie, mi consigliò caldamente di non metterli più. Sono da frocio, disse. Ma perché? Si vede, rispose. Nessuna ragione, nessun motivo. Si vede. Immagine, stile, colpo d’occhio.
Libertà è anche questo: di fronte ai costumi illegittimi, vietati senza ragione sostanziale, fare altrimenti. Ora che possiamo, riprendere i sentieri interrotti, ricomprare i jeans colorati che abbiamo permesso ci buttassero via, le magliette che lasciano scoperto l’ombelico desiderate e mai possedute, gli anelli, i ciondoli, tutti gli accessori sfacciati e ammalianti a cui abbiamo rinunciato per paura delle conseguenze, far crescere e tingere i nostri capelli, salire su suole vertiginose, dalle quali contemplare i piccoli mondi sempre uguali a sé stessi. Che si tratti di musicisti o scrittori, ragazzini o impiegati, etero, omo, quelche-vogliamo-sessuale: le nostre sono rivoluzioni approntate allo specchio. Non può essere frivolo ciò per cui, ancora, si rischia la vita.
Anche questo fa la cultura, anche questo fanno gli esseri umani: ricombinano codici e repertori sedimentati, sovrascrivono il passato, rifiutano il testimone nella staffetta del lecito. Vibrare indefiniti, mettendo al mondo un’alternativa, intrecciare le nature illusoriamente scisse, dimostrando che i desideri proibiti sono solo — devono essere solo — quelli che fanno del male a qualcuno.
Il resto è un gioco serissimo. Preveggenza, speranza, bagliore da quello che non vorremmo più dover chiamare futuro.