«QUELLA LEZIONE DI CORAGGIO
lite, fortunatamente ho preso le decisioni giuste. Quando i giovani mi chiedono consigli per le loro carriere e vogliono sapere come ho modellato la mia, dico spesso che prima di tutto occorre essere preparati. E che quando arrivano le opportunità, anche se sembrano insolite, vanno considerate con cura, così come ho agito io. Quando l’ho fatto, ho cambiato la direzione della mia carriera, che fino a quel momento aveva avuto molto successo. Mi sono immerso profondamente nello studio dell’HIV e quello è diventato il marchio della mia carriera, quello che mi ha condotto ad essere il direttore di NIAID, portandomi alla posizione odierna, nell’occhio dell’urgano della pandemia di Covid-19».
Lei ha definito la crisi dell’HIV i suoi “giorni più bui”. Ha visto tanti morti. Guardando indietro agli anni Ottanta, l’aspettativa di vita per una persona malata era 1-2 anni, con una fatalità quasi universale. Adesso, grazie alle terapie che sono state sviluppate da lei e dalla sua squadra, l’AIDS è diventata una malattia più gestibile. In quale modo questo l’ha preparata per il suo ruolo adesso?
«Per rispondere ad un attacco alla salute della tua nazione e del mondo devi prima di tutto capire che le epidemie succedono e devi essere molto svelto nella risposta. Quindi il lavoro che ho fatto sull’HIV è stata una sorta di preparazione fenomenale per la sfida a un’altra malattia mortale. S’imparano tante lezioni basate sul fatto che devi collaborare con diversi elementi della società. Devi coinvolgerla. Devi applicare la migliore scienza possibile. Devi tenere lontane le considerazioni politiche e prendere decisioni basate solamente sulla salute pubblica della nazione e del mondo». Come scienziato, l’enormità e la natura confusa di questa malattia la spaventa?
«No, non direi che “spaventa” sia la parola giusta. Come scienziato, mi rende perplesso. È difficile trasmettere il giusto messaggio. Quello che intendo è che le cose non mi spaventano. Il mio lavoro consiste nello studio delle malattie infettive. È la vita che ho scelto e non rinnego la mia scelta. L’ho fatto con l’ebola, l’ho fatto con l’HIV. L’ho fatto con tutto quello che ho
fronteggiato. Ma è sconcertante quanto sia difficile, in questo caso, comunicare il messaggio, proprio a causa della natura di questa infezione particolare».
Dottor Fauci, alcuni dei migliori scienziati italiani a Milano, a Bari, a Roma e a Napoli, hanno studiato nel suo laboratorio durante i loro anni formativi. A marzo, quando la situazione in Italia era molto drammatica, seguiva i numeri italiani e la situazione del Paese?
«Sì. Ho percepito bene la gravità della situazione in Italia. Il sistema sanitario, in alcuni luoghi, è stato messo a dura prova, soprattutto dove le persone che necessitavano di ventilatori non hanno potuto averli. Questo è
Suo padre ha visitato Sciacca per la prima volta quando aveva settantacinque anni, vero?
«Sì, infatti».
Quali sono state le sue impressioni?
«È stato molto emozionante per mio padre, che è italoamericano. Suo padre, mio nonno, è immigrato da Sciacca all’inizio del Novecento. Papà è nato a New York City in un’epoca in cui tanti immigrati venivano dall’Italia. Mio padre era molto commosso, gli ha fatto un piacere enorme».
Anni fa un amico le ha consigliato di trattare ogni visita alla Casa Bianca come se fosse l’ultima.
«Giusto».
Questo suo approccio le consente
Un pomeriggio di inizio luglio, periferia di Parigi. A Saint-Denis, nel cortile tra i palazzoni del quartiere Francs-Moisin, Assa Traoré incontra gli abitanti per parlare delle violenze della polizia «in vista dell’estate». Quest’anno, per colpa dell’epidemia, ci sarà poco da fare nel quartiere, meno del solito. I ragazzi che non possono permettersi le vacanze avranno la tentazione di aprire gli idranti o organizzare quei «rodei» in moto o quad che provocano spesso gli interventi degli agenti.
La 35enne Assa Traoré sta facendo il giro delle periferie difficili, cambiato qualcosa, avrà rovesciato un sistema».
Sulle copertine dei settimanali, in televisione o in piazza, con la sua ormai enorme acconciatura afro Assa Traoré è il volto forse più noto di un gruppo di donne — assieme a Camélia Jordana, Rokhaya Diallo, Aissa Maiga e Sibeth Ndiaye — che affiancano alla lotta contro il sessismo quella rinnovata contro il razzismo. Cinque donne che vogliono abbattere uno dei pilastri sui quali si fonda la Repubblica francese: la pretesa universalista che non esistono comunità, gruppi etnici, differenze tra i cittadini. raccomandabile.
Il movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti ha ridato forza e visibilità a un impegno cominciato da tempo anche al di qua dell’Atlantico. Come George Floyd, anche Adama Traoré ha ripetuto «non respiro» prima di morire nella mani della polizia. E come George Floyd, anche Adama Traoré non aveva la fedina penale pulita.
La battaglia di sua sorella Assa si scontra con il fatto che la sua famiglia non può certo essere portata a esempio di rispetto delle regole. Molti, come Marine Le Pen, contestano che quella «gang di delinquenti»
rorizzare il quartiere, piccoli boss di periferia.
Assa Traoré denuncia «una violenza sistematica», una vita che nelle banlieue non può seguire le stesse norme che altrove perché è lo Stato il primo a non rispettarle. «La Francia è un Paese repressivo e autoritario nel quale gli abusi della polizia restano impuniti», dice. Fino al 2016 educatrice specializzata nel recupero di ragazzi difficili, Assa Traoré ha fondato il Comitato verità e giustizia per Adama che è al centro del movimento francese per i diritti.
Nei cortei organizzati dal Comitato, in prima linea c’è spesso Camélia Jordana, cantante a attrice nata 27 anni fa a Tolone, nonni algerini. È una giovane star, eppure «anche io ho paura davanti alla polizia», ha detto qualche settimana fa durante un talk show, una frase che è diventata un hashtag suscitando migliaia di testimonianze sui social media. Il governo francese ha reagito con imbarazzo, stretto tra la necessità di difendere le forze dell’ordine come istituzione ringraziando la maggioranza degli agenti onesti che rischiano la vita, e il non potere più fare finta di niente. Ci ha
rimesso il posto di ministro dell’Interno Christophe Castaner, che aveva promesso di punire i poliziotti «colpevoli di atti di razzismo». Al suo posto, il più intransigente Gérald Darmanin.
Il punto della questione, come in America, è se le discriminazioni siano l’eccezione o la regola .Un dilemma inaccettabile in Francia, dove le differenze etniche non esistono per legge: sono vietate persino le ricerche sociologiche che cercano di stabilire se una comunità sia più o meno colpita dalla disoccupazione, o dalla criminalità, o dal Covid-19. Per non alimentare le discriminazioni, si nega ufficialmente che esistano.
Per avere parlato di «razzismo di Stato», la giornalista e militante Rokhaya Diallo, nata 42 anni fa a Parigi da genitori del Senegal e Gambia, è stata allontanata dal Consiglio nazionale del digitale, una commissione voluta dal presidente della Repubblica. Accadeva a fine 2017, ben prima delle proteste legate alla morte di George Floyd a Minneapolis.
Da allora Diallo è il bersaglio preferito di politici e opinionisti di destra o anche della sinistra «laica»: la accusano di dividere il Paese, di amplificare un risentimento anticoloniale che rischia di generare un razzismo anti-bianchi e un risentimento contro la République che sfiora l’ingratitudine. «Ma è affascinante vedere come i media e i politici francesi sono capaci di osservare e descrivere con grande precisione le dinamiche razziali legate alla storia degli Stati Uniti, mentre appena si parla di Francia agitano il totem di un universalismo che nega ogni carattere sistemico». Per Diallo, in Francia come negli Stati Uniti il razzismo non è solo la malattia del singolo, poliziotto o meno. È un rapporto di forze profondo che non può non avere riflessi nelle
Il punto della questione, come negli Stati Uniti, è se le discriminazioni siano l’eccezione o la regola. Un dilemma inaccettabile per lo Stato francese, che vieta persino le ricerche sociologiche sulla diffusione del Covid tra le comunità etniche
istituzioni: parlare sempre e solo di «mele marce» significa non volere vedere la realtà.
La pensa così un’altra delle donne più impegnate nella lotta per l’uguaglianza, l’attrice Aissa Maiga, 45 anni, franco-senegalese, che si fa vedere spesso anche nei comizi accanto a Assa Traoré. Il 28 febbraio scorso alla cerimonia dei César, gli Oscar francesi, fece scalpore la protesta di Adèle Haenel contro il premio colorati, «sembra uscita dal circo», le disse l’ex ministra di destra Nadine Morano. Sibeth Ndiaye proviene da una famiglia benestante, ha frequentato l’Eliseo ed è stata tra le più strette collaboratrici di Emmanuel Macron. È molto lontana dalle periferie e dal mondo di Assa Traoré. Eppure anche Sibeth Ndiaye è convinta che «il problema del razzismo in Francia non è risolto».