NADA UN OMICIDIO SENZA COLPEVOLE
Ci sono casi che sembrano facili, e invece. Ci sono indagini che sembrano fatte coi sacri crismi, e invece. Invece capita che una ragazza di 24 anni, impiegata dalla vita specchiata e senza alcun non detto, venga trucidata in ufficio, un lunedì mattina qualunque, e che nessuno venga chiamato a rispondere del suo assassinio. La giovane si chiamava Nada Cella. Abitava a Chiavari, vicino a Genova, con la madre Silvana, bidella in municipio; il padre Bruno faceva il falegname ad Alpepiana ed era rimasto a vivere nella casa natale per comodità lavorativa; la sorella maggiore, Daniela, viveva col marito a Milano.
La sintesi degli eventi è da delitto della camera chiusa: lunedì 6 maggio 1996, di prima mattina, Nada arriva in via Marsala, sede dell’ufficio in cui lavora da quando si è diplomata. Ha appena accompagnato in auto la mamma, che rischiava di arrivare tardi al lavoro, e ha preso la bicicletta per raggiungere il suo stanzino. Fa la segretaria presso un commercialista poco più che trentenne, il dottor Marco Soracco. La signora del piano di sotto, alle nove, sente un tonfo sordo sul pavimento. Pochi minuti dopo, arriva una chiamata al 113: è il commercialista che chiede soccorso «per una caduta». I paramedici, allertati dalle forze dell’ordine che riferiscono di «una ragazza che perde sangue», trovano Soracco sulla soglia. Un soccorritore, amico di Nada, sta per rendersi
Ventiquattro anni fa una ragazza viene trovata agonizzante nell’ufficio dove lavorava: gli investigatori sono convinti di riuscire a chiudere rapidamente il caso, non sarà così. Alla fine del 1998 l’archiviazione: nel ‘99 il padre di Nada muore di crepacuore mentre torna dal cimitero
conto che quella ragazza è una sua vecchia conoscenza. Quando vengono condotti là dove giace Nada Cella, agonizzante nel suo ufficio, stretta tra il muro e la scrivania, trovano una scena da film horror: c’è sangue dappertutto. La portano all’ospedale di Lavagna, poi a Genova dove si tenta un disperato intervento chirurgico, ma non c’è niente da fare. Nada Cella non è caduta, non ha avuto un malore: è stata massacrata. Il patologo troverà otto ferite da corpo contundente non identificato, una sul pube, più una serie di urti devastanti contro una superficie piana e solida che hanno provocato lo sfondamento delle ossa frontoparietali del cranio.
L’anomalia
Le indagini escludono rapidamente la rapina o il movente sentimentale: l’unica storia d’amore di Nada, finita da anni, coinvolgeva un uomo più grande di lei, trasferitosi da tempo in Veneto. La sua esistenza viene scandagliata e non si trova l’ombra di una motivazione per un assassinio così brutale. L’unica flebile anomalia è raccontata dalla mamma di Soracco, la signora Bacchioni, insegnante di storia e filosofia: nel verbale delle sommarie informazioni testimoniali sostiene che il sabato precedente la tragedia, contrariamente alle sue abitudini, Nada si era presentata in ufficio mentre lei stava pulendo lo studio del figlio. La ragazza si era giustificata dicendo che covava un dubbio su una pratica di un cliente che voleva assolutamente risolvere e, difatti, aveva telefonato al commercialista, che viveva con la madre al piano superiore. Prima di andarsene, sempre stando al racconto della donna, Nada aveva estratto un floppy disk dal computer dell’ufficio e se ne era andata. Ma quel floppy non viene ritrovato, né il computer reca tracce di lettura o scrittura da unità disco in quel sabato. Di più: il computer di Nada registra un’operazione già poco dopo le otto del mattino di sabato, quando la ragazza non è ancora presente sul posto di lavoro e Soracco, per conto suo, nega di averlo utilizzato.
Gli inquirenti si interessano, giocoforza, al commercialista. Anche perché devono fare i conti con una
per raccontare che, circa un mese prima del fatto, Soracco aveva fatto cadere una frase sibillina che suonava all’incirca così: «Presto nello studio ci sarà un botto, ne parleranno i giornali, la signorina andrà via». Si cercano possibili moventi legati all’attività del commercialista; si organizza anche un incontro pilotato tra i due, in un luogo riempito di cimici, per avere conferma della circostanza. Ma il datore di lavoro di Nada smentisce risolutamente con il collega, nega di aver mai detto quella frase.
Ciò che secondo il magistrato Gebbia e i suoi collaboratori doveva essere un caso da chiudere entro pochi giorni, si arena sulla scogliera per mesi. La scena del crimine viene alterata dai soccorritori prima, dai condomini poi: la madre di Soracco viene bloccata dalla polizia quando ha già pulito con secchio e straccio buona parte delle macchie di sangue della povera ragazza. Si inceppa, per cavilli normativi, il procedimento per mettere sotto controllo le utenze telefoniche.
Il dolore
I mesi diventano anni. Alla fine del 1998, il caso viene archiviato. Nessun colpevole. Nel 1999 il papà di Nada, di ritorno dal cimitero, ha un infarto e muore. La madre, a ogni cambio di procuratore, torna negli uffici della magistratura per chiedere di riaprire le indagini. Si pensa a un’inquilina dello stabile, afflitta da problemi psichici; si tenta la pista di un muratore reo confesso dell’omicidio di una prostituta, ma non c’è nulla di concreto su cui lavorare. Negli anni, spuntano altre pallide tracce: i diari Smemoranda di Nada, corroborati dai ricordi di un’amica, che parlano della mal sopportazione di Nada nei confronti del commercialista. In un’intervista televisiva, Soracco conferma che i rapporti con Nada erano assolutamente corretti, professionali e formali; non si era mai avveduto di alcun disagio e, a suo parere, «l’aggressione è dovuta a qualcosa legato alla sua sfera personale, non c’entra quella lavorativa». Il dottore si augura, a buon diritto, di uscire presto dall’incubo del sospetto e di «poter riprendere la vita di prima» al più presto.
Gli ultimi tentativi riguardano
La vittima conosceva l’aggressore: non ha fatto niente per difendersi, non ha gridato, non ci sono segni di scasso. Viene ascoltato il suo datore di lavoro, un commercialista trentenne: ha dato lui l’allarme.
il riesame delle tracce di Dna, sopravvissute alla contaminazione della scena e all’alluvione che allagò l’ufficio reperti del tribunale di Chiavari nel 2014, e di un’impronta insanguinata, di difficile identificazione, sul muro dell’ufficio. La rilettura degli atti fa emergere una serie di telefonate, quel tragico lunedì mattina, da parte di una cliente dello studio, la signora Vaio. Giura di aver chiamato più volte. Di essersi sentita dire prima di aver sbagliato numero, da una voce di donna «non giovane»; poi, la stessa voce le avrebbe ripetuto che il numero era errato. Al quarto tentativo, poco dopo le 9, avrebbe risposto il dottor Soracco, chiedendo gentilmente di chiamare più tardi perché la segretaria si era sentita male. Povera Nada.