Il papà di Montalbano
Ha del portentoso che storie scritte in vigatese, linguaggio siculo immaginario innestato sull’italiano per arrivare meglio al cuore delle cose, siano state tradotte in 120 lingue del mondo, dal norvegese al giapponese all’ebraico. Un successo planetario quello di Andrea Camilleri
che si è tardivamente manifestato quando lo scrittore era ormai quasi settantenne e al di fuori di ogni vaticinio che potesse fare di lui una star culturale nel mondo contemporaneo, quale invece è diventato, al di fuori di ogni canone modaiolo.
La sua fascinazione per il dialetto affondava nella sua vocazione innata all’indisciplina, in collegio – che non amava e dove fece di tutto per essere cacciato, compreso tirare delle uova fresche su un Crocifisso – gli proibivano fra le altre cose l’uso del dialetto, ed ecco che lui per trasgredire comincia a inventare quella terza lingua sulla quale poi ha lavorato tutta la vita sciacquandola nelle acque dell’Akragas e dell’Hypsas, di due fiumi della Valle dei Templi dove era nato, a Porto Empedocle, nel 1925.
Operazione poi definitamente completata e sposata anche con benedizione paterna. Camilleri aveva raccontato al padre sul letto di morte il primo romanzo del Commissario Montalbano, e lui gli disse: «Promettimi che lo scrivi come l’ hai raccontato a me ora, mezzo in italiano e mezzo in siciliano». Promessa mantenuta, con quell’effetto di assoluta naturalezza, un impasto unico dove non si riconosce più il lavoro che c’è dietro. E con quei personaggi che vivono di vita propria anche per i loro vezzi dialettali, a cominciare dal prodigioso Catarella che ecumenicamente nei suoi siparietti inciampa nell’italiano come nel dialetto. Prima del suo tardivo successo mondiale con quel commissario particolare che con i suoi difetti – scontroso, difficile, troppo libero – entra nel cuore delle persone con le sue storie che sono un precipitato di vita, bene, male, delitti, soprusi non solo siciliani ma universali, rigenerazioni, amori e cucina, Camilleri aveva già vissuto e prodotto parecchio. A quei tempi, metà degli anni Novanta, aveva già fatto molto teatro, la sua passione, era stato a lungo funzionario Rai, e avrebbe poi scritto, fra romanzi storici e Montalbano, più di 100 libri. Ma sempre orgoglioso di poter celebrare i suoi 80 anni in Rai, dove ricordò come in prima battuta, nel 1954, l’amministratore delegato Filiberto Guala allora non avesse voluto assumerlo perché «troppo comunista».
Sempre guardato non con sospetto ma con scarso entusiasmo dalla critica ufficiale proprio per quel suo essere troppo pop, al limite fra i generi, tanto che Renata Colorni ha ricordato in una recente chiacchierata con Paolo di Stefano sul Corriere come furono costretti in Mondadori a giustificare la decisione di dedicare un Meridiano a Camilleri come la decisione «di aprire la collana ad autori di alto intrattenimento e di genere», allargando un po’ le maglie.
Felicemente incistato in una famiglia di donne, la moglie Rosetta, 62 anni di matrimonio, sposata perché era «una ragazza che metteva allegria», tre figlie, scrisse nel 2018 come testamento spirituale e politico una lettera alla pronipote Matilda di 4 anni perché voleva che capisse, quando sarebbe stata grande, i passaggi difficili della storia del Novecento: Camilleri partiva raccontando di come alle elementari non avesse mai mangiato una merenda intera perché la divideva con i compagni meno fortunati di lui. Quasi cieco, conclude la sua lunga vita recitando la sua Conversazione su Tiresia a teatro e in tv. «Non ho paura di niente, neanche della morte. Io e lei ci rispettiamo. Accogliere la morte è un atto dovuto, è saggezza. Sei già morto nell’atto stesso della tua nascita», sono le sue ultime riflessioni. La sua morte (il 17 luglio 2019 a Roma) è stata salutata dal rito collettivo di un Paese che ha pubblicamente accompagnato il lungo addio di un uomo e di uno scrittore, amato anche per le sue prese di posizione politiche fortemente personali.