L’amicizia ha bisogno di complicità, non di presenza
Una volta ce lo siamo proprio dette:
più avanti». In effetti, era poco ragionevole pretendere di aiutarsi se una si stava fidanzando
e l’altra lasciando, se una era tutta presa dal lavoro e l’altra dalla maternità. Crescere insieme
è una cosa difficile, se non impossibile, da fare in contemporanea. I silenzi tra noi ci sono
stati, eppure istintivamente non abbiamo mai messo in discussione il nostro legame. Anche
quando non c’eravamo l’una per l’altra, sentivamo comunque la nostra reciproca presenza.
Perché?
«È inutile che stiamo qui a non capirci. Ritroviamoci
Azzardo: perché questa presenza era costituita d’assenza.
Dopo i primi due anni di superiori, abbiamo sempre vissuto a centinaia di chilometri di distanza.
In città diverse, poi addirittura in Stati diversi. E se questa amicizia è così tenace, credo,
non è tanto merito nostro, quanto del fatto che la distanza non separa, a volte, cementa.
Non abbiamo potuto, Erica e io, darci appuntamenti e offenderci in caso di rinvio. Né provare
gelosia per le altre amicizie, per i nostri mariti o figli. Il nostro luogo non è mai stato la
Siamo, in sostanza, due amiche di penna, quotidianità. due amiche immaginarie. Anime che possono dirsi tutto.
E, con le fragilità rivelate, abbiamo reso granitica
la nostra amicizia.
Erica e io abbiamo resistito a università, lavoro, matrimoni, figli. È la mia migliore amica dalla quarta ginnasio: ventuno anni e diverse rivoluzioni. Mi chiedo come ci siamo riuscite. Siamo due figlie uniche, assetate di sorellanza, ma non potremmo essere più diverse. In certe occasioni ci siamo deluse, per lunghi periodi non ci siamo sentite.
Le paure più inconfessabili, le insicurezze di cui più mi
vergogno, Erica le sa. Confidandole a lei, provo a conviverci.
Ascoltando lei mettersi a nudo allo stesso modo,
mi confronto, ma senza competizione. Non assistiamo a
quel che accade nelle nostre vite. Cerchiamo le parole per
dire l’una all’altra l’invisibile che ci portiamo dentro.
Quando suo figlio piccolo dorme, lei mi manda un
vocale. Prima di andare a prendere mia figlia al centro
«Amo moltissimo
il giuoco del
calcio, un amore tenace il mio,
non un fuoco di paglia. Le mie
compagne hanno tanta passione
e buona volontà: non tramonteremo
mai» prometteva Rosetta
Boccalini, nel 1933, intervistata
sulla rivista
Solo un giuoco, un amatissimo
giuoco. Che però Rosetta e le sue
compagne, un manipolo di “tifosine”
— come si diceva allora —
milanesi, le prime donne in Italia
a fondare una squadra di calcio, il
Gfc, Gruppo Femminile di Calcio,
non poterono giocare a lungo: il
fascismo glielo impedì. La loro
storia, a lungo dimenticata, è diventata
un romanzo,
(Solferino) scritto dalla giornalista
del
Federica Sene