Corriere della Sera - Sette

PRESERO (E PERSERO) ROMA

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avergli chiesto di fare quella telefonata a Erdogan…».

Scauri, cinquemila anime in provincia di Latina, basso Lazio, quasi al confine con la Campania. Nove luglio. In cinquecent­o, zanzare escluse, gremiscono un’arena sul lungomare. Sogni di una notte di inizio estate. Il circo di Matteo Renzi fa una tappa per la presentazi­one del libro La mossa del cavallo, che l’ex premier ha appena fatto uscire per Marsilio. Non sembra avere il piglio di chi pensa di avere giusto un grande passato dietro le spalle e nulla davanti, al contrario. Ma a un certo punto lo dice: «Vedete, io ho fatto cosi», e la mano sinistra (con la destra tiene il microfono) si sposta dal basso verso l’altissimo, indicando un’ascesa

Sorpresa in tempi Covid «Che cosa hai fatto tutto questo tempo?». Dicono che la prima domanda che è venuta fuori quando Matteo Renzi ha abbandonat­o per un attimo la quarantena per andare a trovare Luca Lotti, positivo al Covid-19, sia stata questa. La stessa che Fat Moe rivolge a Noodles-De Niro rivedendol­o dopo tanti anni in quella scena memorabile di C’era una volta in America, quando il protagonis­ta del film poi risponde «Sono andato a letto presto». Anche loro, Lotti e Renzi, non si vedono da parecchio tempo. A marzo del 2020, l’ex presidente del Consiglio e il suo ex sottosegre­tario a Palazzo Chigi – un sodalizio nato per caso nel 2005 a una fiera della ceramica, quando Renzi

era presidente della Provincia di Firenze e Lotti un consiglier­e comunale di Montelupo Fiorentino – hanno rotto i rapporti da più di un anno. Quando Renzi s’era convinto che la scissione dal Pd fosse l’unica cosa giusta da fare per rimanere a galla e Lotti no. A pesare come un macigno anche i rapporti a dir poco burrascosi tra Lotti e Maria Elena Boschi, acerrimi rivali anche durante l’esperienza comune nel governo guidato da Paolo Gentiloni. Lui non voleva che lei entrasse, per marcare una discontinu­ità col passato e ripulire l’immagine del gruppetto dopo la sconfitta al referendum; lei voleva entrare a tutti i costi, e ci era riuscita anche con l’aiuto di Renzi.

Il 13 marzo scorso, quando l’Italia sta già trattenend­o il fiato a causa di un’epidemia che sta per diventare pandemia, Lotti annuncia di essere positivo al Covid-19. «Un conto è la politica, un conto è la salute. Devo andare a trovare Luca», dice Renzi. L’album dei ricordi s’affaccia di fronte ai due protagonis­ti di una stagione di potere intensa e breve allo stesso tempo. Il tempo di una mano che indica prima il cielo e poi la terra, la salita ardita e poi la discesa.

Il quinto Beatle

Renzi, Boschi, Lotti e Bonifazi, quattro come i Beatles, quattro come il Quartetto Cetra. Rispettiva­mente testa, cuore, mani e portafogli­o del fu Giglio Magico. Uscito di scena Lotti, il posto di mente organizzat­iva è stato occupato da Luciano Nobili, unico non toscano tra gli «affetti stabili» (tra loro, col gergo post Covid-19, si chiamano così) del renzismo della prima fascia. Romano, classe ’77, cresciuto a “pane e cicoria” ai tempi dei Giovani della Margherita di Francesco Rutelli («pane e cicoria» è una celebre citazione rutelliana ai tempi in cui i centristi lavoravano all’embrione del Pd insieme a Romano Prodi e ai post-comunisti, litigando di continuo), Nobili è stato uno degli architetti della costruzion­e di Italia Viva. L’uomo del pallottoli­ere, che contava quanti del Pd li avrebbero seguiti nella nuova avventura e quanti li avrebbero abbandonat­i all’ultimo miglio, quanti sarebbero

All’inizio era Renzi, che stracciand­o Ventura alle primarie per sindaco di Firenze notò Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi, fidanzati e nello staff del “nemico”: «Venite a lavorare con me?». Poi arrivò Luca Lotti. Che come Jack Frusciante è uscito dal gruppo (del Giglio) restando nel Pd

stati fedeli e quanti avrebbero tradito. Con margine di errore pari a zero. Il nome di Luca Lotti, tra i quegli appunti, non c’era mai finito.

L’amore di Meb

Maria Elena Boschi ha recuperato la sua centralità, sia a Palazzo che sulle pagine dei giornali. A dispetto di quello che si muove sul proscenio – dove Renzi appare ancora come l’antico “bersaglio numero uno” dei M5S – il gruppetto dei renziani ha rapporti di cordialità con la delegazion­e pentastell­ata di governo. Un po’ meno col Pd, che invece ha un’interlocuz­ione privilegia­ta con Giuseppe Conte. Meb, l’acronimo diventato un soprannome, tiene molti di questi rapporti. La stampa I capitoli della storia di un gruppo di amici che dalla provincia è finita nel cuore pulsante delle decisioni di un’intera nazione non sarebbero stati scritti senza le primarie per il sindaco di Firenze del 2009. E senza il contributo involontar­io e casuale di Massimo D’Alema, che per tentare di frenare l’ascesa del giovane Renzi lancia nella mischia il veterano Michele Ventura. Bonifazi, legato al dalemiano fiorentino, lo aiuta nel comitato elettorale insieme alla sua allora fidanzata, Maria Elena Boschi. Ventura straperde, Renzi stravince ma nota il duo. «Allora, venite a lavorare con me?». Quattromil­a giorni dopo, a loro modo, sono ancora là.

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