Corriere della Sera - Sette

LA STRISCIA

- Di STEFANO DISEGNI

non «Una macchina fotografic­a mente», dice Dzemil Hodzic.

Aveva 12 anni quando cessò di essere bambino, e la sua vita stava per cambiare per sempre. Anche se non poteva immaginarl­o. Quel giorno, era il 3 maggio 1995, era stata dichiarata la tregua a Sarajevo e come sempre lui e i suoi amici erano usciti a giocare, ogni sirena per loro significav­a libertà dagli adulti, la scuola finiva all’improvviso e loro correvano in strada (piuttosto che nello

il rifugio): erano le lunghe giornate che i bambini passavano sull’asfalto — come nei libri di Aleksander Hemon, ciascuno con la sua contro le altre, sorta di unità divise in grandi e piccole, a ogni condominio la sua, gerarchica­mente ordinate e agli ordini del più forte e più grande, a cui bisognava portare le sigarette e i giornali con le ragazze nude —, l’infanzia uguale per tutti e scuola di tutto quel che di importante ci sarebbe stato dopo. Suo fratello Amel era il più alto del gruppo, aveva 16 anni e giocava a tennis, quando lo

il cecchino, lo colpì al petto. Riuscì a fare venti passi in piedi, uscì la mamma dalla cucina che stava incartando panini per il suo turno di notte da infermiera, provò a rianimarlo ma fu inutile. C’è un prima e un dopo quel pomeriggio, per Dzemil. Tolse l’orologio insanguina­to al fratello e lo portò senza lavarlo per giorni. Anni dopo si accorse di non avere foto di Amel, perfino per il funerale faticarono a trovarne una, la presero alla fine da una brochure scolastica: non si scattavano foto allora, i rollini costavano, e non sembrava importante.

Oggi che Dzemil monta video

anni, 10 mesi e 3 giorni di assedio tra il 1992 e il 1996, finiti quasi 25 anni fa.

Sniper Alley, snajperska Aleja — solo a Sarajevo si poteva trovare un nome così magniloque­nte, drammatico e quasi surrealist­icamente canzonator­io — è la strada che taglia in due la valle, tra la via del Drago Bosniaco e il Boulevard di Mesa Selimovic, che lega la Sarajevo Vecchia e Nuova e che bisognava per forza attraversa­re, correndo con le borse della spesa, come per salvarsi la vita, sfidando i cecchini che dai condomini e dalle colline con i teleobiett­ivi puntavano in basso. Amel fu ucciso dalla Spicasta skala, la parete appuntita, come lui altri 11.541 civili, 1.601 bambini.

Gli erano il terrore bianco e invisibile di Sarajevo, il gioco a dadi con le vite che avevano inscenato i serbi di Ratko Mladic e di Radovan Karadzic, ergendosi a signori e giudici e assassini dei musulmani giù in basso, e di tutti quelli — anche serbi, cittadini e cosmopolit­i — che si erano dichiarati prima di tutto sarajevesi. Il poeta Faruk Sehic, che allora era da poco uscito dalla per quanto li racconta così:

Dzemil Hodzic si è messo a lavorare sul memoriale della Sniper Allee un anno e mezzo fa. Non è il solo. Ogni giugno, e mai come quest’anno, la rete mai troncata, quella sorta di cresciuta e allargata di sarajevesi colti rimasti in città e altri immigrati in America e altrove, che parlano per metafore, riferiment­i e invenzioni loro — e che sono una comunità per genio e invettiva senza uguali tra le nazioni — si riattiva contro quello che considera l’ultimo degli oltraggi. La negazione del disegno criminale di Milosevic, la negazione del carattere genocida di quel massacro che alla fine i serbi portarono realmente a compimento, non già a Sarajevo, ma a Srebrenica. Ne fanno parte registi 40-50enni Danis Tanovic o Jasmila Zbanic, lo stesso Faruk Sehic, che vivono tuttora in città, i fuoriuscit­i come Aleksander Hemon, i pochissimi sopravviss­uti al massacro finale di Mladic, come Emir Suljagic e Hasan Hasanovic. Perché se Srebrenica, tre ore di macchina su per la stretta vale della Drina, è il luogo dell’eccidio, è la gente di Sarajevo che ha cercato di raccontarl­o al mondo.

Il Nobel a Peter Handke, lo scrittore austriaco che lesse l’eulogia sulla tomba di Milosevic, ha scatenato in autunno l’ultima protesta. Come ha detto Hemon in un’intervista alla lui che pure non è un sostenitor­e della ed è assolutame­nte favorevole che i libri di Handke restino sui loro scaffali, il comitato scegliendo Handke, «ha premiato il negazionis­mo del genocidio bosniaco e l’islamofobi­a». «Hanno fatto finta che la scelta fosse una questione letteraria, ma nei fatti hanno lanciato un messaggio chiaro: quelli che si preoccupan­o di questioni terrene come i massacri di guerra sono idioti. Questo è pericoloso per la letteratur­a, perché la relega a pura estetica, ed è ancora più pericoloso nel mondo dove crescono intolleran­za e razzismo». Solo un anno fa il leader della Bosnia serba (RS), Milorad Dodik, ha detto che Srebrenica è «un mito fabbricato». E i serbi sono diventati — nella galassia dell’estrema destra globale, in modo crescente e allarmante — supereroi che combattono i musulmani. Se già

Breivik esaltava le loro falangi, il killer di Christchur­ch (55 morti) è partito nel suo folle sterminio contro gli immigrati in Nuova Zelanda ascoltando un inno a Karadzic. Non è un caso. Oggi i bosniaci musulmani osservano delusi come la loro storia sia rimasta a margine, che nessuno l’ha fatta propria, che — se l’Olocausto è un memento perenne — il loro orrore resti solo a loro.

Sono passati 25 anni. Nel suo ultimo racconto dai Balcani, Tim Judah, giornalist­a e scrittore che li ha frequentat­i a lungo, parla del suo autista Ilija, 42 anni, che si rammarica di come avesse ottenuto un’offerta per andare a fare il guidatore di camion in Germania,

Il poeta Faruk Sehic: «Quando guardo le foto di guerra, vi trovo persone più felici e sorridenti che nelle strade di oggi. Cioè vedo più amore, eros, slancio, ottimismo, fiducia nel futuro»

e di come — aspettando il permesso d’espatrio — pure il lavoro sia sparito. «È 25 anni che spero. Adesso mi odio per questo». Se troverà qualcosa se ne andrà. La vera storia della Bosnia di questi ultimi anni, povera e mai ripartita, dove i croati cattolici non si sentono benvenuti, i serbi alzano la voce e i musulmani aspettano, è la lenta e inarrestab­ile perdita della sua popolazion­e, lo svuotament­o che la sta privando, più di ogni altro Paese in Europa, dei suoi cittadini. Erano 3,7 milioni dopo la guerra, sono 3,3. Il poeta Faruk Sehic, quello del cecchino Polifemo, osserva: «Quando guardo le foto di guerra di Zoran Zoka Kanlic, vi trovo più persone felici e sorridenti che nella Sarajevo di oggi. Cioè vedo più amore, soddisfazi­one, eros, slancio, ottimismo e fiducia nel futuro». Sarajevo è ancora bella, riconoscib­ile per chiunque l’abbia vista

È stata l’agente segreto donna più coraggiosa e spericolat­a della Seconda guerra mondiale, tanto da guadagnars­i l’ammirazion­e personale di Winston Churchill: ma su di lei era calata, dopo la sua morte, una coltre di silenzio. Ci è voluta una nota biografa inglese, Clare Mulley, per riportare alla luce le gesta, le avventure e gli amori di Krystyna Skarbek, la contessa polacca conosciuta col nome in codice di Christine Granville: si intitola il libro, appena uscito in Italia per 21 Lettere, che ripercorre la vita di una donna leggendari­a che è stata fonte di ispirazion­e per Ian Fleming, il creatore di James Bond.

Operazione Barbarossa Allo scoppio del conflitto mondiale, Krystyna abbandona gli agi di una vita aristocrat­ica nella sua Polonia e fugge in Gran Bretagna, dove assume il nome di Christine Granville e diventa la prima spia donna al servizio di Sua Maestà: assegnata al Soe, il servizio di sabotaggio, sovversion­e e spionaggio istituito da Churchill, si infiltra in Europa e in Africa; catturata dalla Gestapo, per farsi rilasciare si morde la lingua a sangue per simulare una tubercolos­i. Una freddezza e un’astuzia che le saranno di aiuto in mille missioni che le valgono le medaglie al valore del Regno Unito e della Francia.

Il soprannome di Christine era Willing (Disposta): tanto nel cercare le missioni più pericolose quanto gli uomini più affascinan­ti. Perché la sua vita sentimenta­le fu movimentat­a quanto la sua attività spionistic­a: divorziò due volte, ebbe una lunga e tormentata relazione con un altro agente segreto e si lasciò alle spalle decine di amanti.

«Volevo scrivere la storia di una donna forte», spiega a Clare Mulley, «sono una femminista, ci sono tante storie di donne non raccontate che vanno portate alla luce. Le figure femminili nella Resistenza sono di solito ricordate per la loro bellezza e il loro coraggio più che per i loro successi: ma anche se Christine era molto avvenente (prima della guerra era stata una reginetta di bellezza in Polonia) furono i suoi successi che le valsero le decorazion­i dei governi francese e britannico. Lei portò le prime prove dell’Operazione

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Australia (foto in alto a destra)
Le lacrime di una madre mentre decide se separarsi dal figlio, mettendolo sul bus che lo porterà fuori da Sarajevo assediata. È il 1992, Gordana Burazor e Andre oggi vivono in Australia (foto in alto a destra)
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Nel sobborgo di Dobrinja, infestato dai cecchini, Meliha Vareshanov­ic cammina con orgoglio, ben vestita, curata, durante i giorni dell’assedio del 1993. Qui sopra Meliha Vareshanov­ic oggi, nella stessa strada di allora

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