Fiorucci, genio in Passerella
Nella Milano Anni 70 c’era un angolo di internazionalità visionaria che faceva la gioia di molti ma soprattutto degli assetati di futuro. Elio Fiorucci, uomo di intuizioni prima ancora che stilista, aveva voluto il negozio di Galleria Passarella a due passi da piazza San Babila come laboratorio di creatività.
Non l’aveva affidato a un architetto ma a un’artista che gli piaceva, Amalia Del Ponte, che ne fece un luogo sperimentale usando materiali non convenzionali, e riempiendolo con quella scala verniciata a fuoco tipo carrozzeria, così diversa dai canoni del tempo e che, scendendola, sembrava introdurti in diversi mondi possibili. E per chiunque, giovane o no, passare da lì voleva dire essere cittadino del mondo. «Mi sembrava un cane da tartufi, riusciva a scovare le cose con l’idea fissa di fare posto aperto ai giovani e per i giovani» ricorderà poi Amalia parlando di lui.
I ricercatori di Elio, le famose antenne, sceglievano il meglio da ogni parte del pianeta e lo riportavano lì: stracci colorati dal mondo e plastiche milanesi subito di tendenza, ma anche i famosi jeans Fiorucci ammorbiditi da lui con l’uso della lycra che li rendeva aderentissimi e che subito avevano sostituito i rigidi Levi’s fra gli hippie figli dei ricchi australiani o californiani. La moda non era solo moda per lui ma un’idea di vita e del mondo.
Fiorucci, che si era formato fuori dalla scuola tradizionale, ha fatto apprendistato nei negozi di pantofole del padre inventando a 17 anni giovanissimo un paio di soprascarpe di plastica e colorate. Amica le vede e le pubblica e lui con quel primo guadagno se ne va a Londra, il viaggio che gli apre la testa, e nella Swinging London respira un’aria di libertà e lì intuisce, come raccontava lui stesso, «il cambio di costume».
Il negozio milanese, primo concept store al mondo, di taglio artigianale ma di effetto avveniristico, con luci e musica sempre in azione, fu subito pubblicato su Panorama, giornale che ai tempi aveva le stesse antenne perspicaci di Fiorucci, e da lì la sua fama volò nel mondo. Tutto poi viene replicato a Manhattan, una giovane Madonna si innamora dei suoi jeans, i suoi angioletti abbracciati sono su tutte le T-shirt (e arrivano fino a oggi, indossate da Chiara Ferragni), da lì passavano le avanguardie pop del momento e lui con la naturalezza che lo distingueva diventa amico di Andy Warhol, di Keith Haring e di tante eccellenze artistiche. Pioniere di Made in Italy negli Stati Uniti e nel mondo, ha rivoluzionato i guardaroba di molti: «La moda non scendeva più dall’alto, come lo Spirito Santo, ma nasceva dal basso sotto la spinta di una turbinosa evoluzione del costume».
Organizza l’apertura dello Studio 54, discoteca cult del periodo, e il suo Fiorucci Store viene ribattezzato a New York il Club 54 diurno. Ricordo una volta che, ragazzina stipata in quella mitica fila davanti al Club dove ognuno premeva per essere pescato nel bouquet della folla dagli inarrivabili buttafuori, me lo trovo davanti, non lo conoscevo di certo allora, ma non ho neanche bisogno di chiedere e mi trovo dentro al Club, portata da lui. Era capace di generosità istantanea, creativa e umana.
Rimasto sostanzialmente umile nonostante il successo planetario, si definiva semplicemente «un commerciante etico». E con il solito fiuto e le solite antenne, nella seconda parte della vita captò nell’aria il bisogno di un nuovo cambio di passo. Diventò vegetariano, si batté per il clima e fu tra i garanti del Manifesto per la coscienza degli animali, cercava un equilibrio e un’armonia perdute e nel 2003 lanciò un nuovo progetto con il marchio Love Therapy. Poco prima di morire (il 20 luglio 2015 a Milano) in un’intervista con L’Eco di Biella disse: «Ho sempre pensato che qualunque attività, commerciale o imprenditoriale, debba avere al centro dei valori spirituali profondi che i consumatori sono in grado di percepire a pelle. È questa base che concorre a rendere etico il business».