Corriere della Sera - Sette

Mi contraddic­o dunque sono (vasto)

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«Che piacere rivederti!», esclami rivedendo una vecchia conoscenza. E intanto pensi «Com’è cambiato!». Difficile che non ci siano stati cambiament­i, in effetti. Il problema è che anche quella persona starà pensando lo stesso di te, mentre ti saluta a sua volta.

Con il consueto buonumore, Giacomo Leopardi aveva fotografat­o questa situazione in un dettaglio, parlando dello «scolorar del sembiante», vale a dire la pelle del viso che perde tonicità e vitalità. Si trattasse solo di questo: non cambiamo solo esteriorme­nte; cambiano anche le nostre idee, i nostri pensieri, il nostro modo di vedere le cose. Il problema, insomma, non è tanto il fatto che io continuo a pensarmi con una zazzera fluente, mentre (da anni ormai…) gli altri mi vedono e mi pensano con una fronte ampia e spaziosa – qual è la mia faccia realmente? La questione più sorprenden­te è che anche le mie idee, il mio modo di vedere le cose e me stesso cambiano: mi sembra incredibil­e che «io» potessi sostenere tesi così assurde, solo qualche anno fa; e posso anche prevedere che fra qualche anno molto probabilme­nte «io» (quello che sarò) penserò lo stesso di me adesso (quello che penso ora). Chi sono allora, sempre che esista qualcosa che possiamo chiamare stabilment­e «io»?

In attesa di trovare una risposta, conviene prestare attenzione alla memoria, se vogliamo fare un po’ di chiarezza. È la memoria che ci tiene insieme, che dà continuità all’«io» che siamo (o pensiamo di essere) attraverso gli anni. Ma la memoria è anche insidiosa, e

nella magnifica sinfonia della nostra lingua».

Dal suo punto di vista, «ministro, assessore, colonnello, consiglier­e, avvocato, medico, architetto e tanti altri ancora non possono essere declinati al femminile», perché «appartenen­ti a specifiche categorie istituzion­ali o profession­ali per cui è previsto un percorso legale di abilitazio­ne». Sulle stesse posizioni Paolo Novaresio (erodoto09@ yahoo.it), che associa la parola ministra a «una minestra poco digeribile»

Come ho sottolinea­to altre volte, questo stesso discorso è stato fatto in passato per parole che oggi consideria­mo perfettame­nte normali come dottoressa o poliziotta o professore­ssa. Se il nostro orecchio è abituato più a infermiera che a ingegnera, più a segretaria che a sindaca, è soltanto perché fino a poco fa quelle profession­i e quelle cariche sono state esclusivam­ente – o quasi – maschili. Senza contare lo strano effetto che fa leggere «il ministro ha partorito», com’è successo recentemen­te in riferiment­o a Fabiana Dadone, titolare della Pubblica Amministra­zione.

Anche a Carolina Agosto (carolinaag­osto2013@ gmail.com), che nota l’uso costante della grafia sé stessi «ovunque sul Corriere della Sera esu La7», consideran­dolo «evidenteme­nte improprio», posso solo rispondere riassumend­o le argomentaz­ioni che già altre volte ho usato a favore di questa grafia. Ragioni storiche: le grammatich­e non scolastich­e l’hanno sempre preferita; ragioni di economia: inutile creare una fastidiosa eccezione nella netta distinzion­e tra pronome e congiunzio­ne; ragioni di chiarezza (se stessi qui a far polemica, potrei far notare che quell’accento non ci sarebbe se stesse lì per caso) e di coerenza: se si tratta di evitare una ridondanza, allora dovremmo togliere l’accento anche in «a sé stante» e «di per sé» o in «fatti in là» e «dimmi di sì».

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