Bucci, la felicità di perdersi
All’apice del successo, dopo il suo stralunato Ligabue televisivo del 1977, Flavio Bucci guadagnava a gogo, per sua stessa ammissione: «In teatro anche due milioni di lire al giorno e per fortuna ho speso tutto in donne, manco tanto, che me la davano gratis, vodka e cocaina. Scarpe e cravatte che non mettevo mai.
Mi sparavo cinque grammi di coca al giorno, solo di polvere ai tempi avrò bruciato 7 miliardi. L’alcol mi ha distrutto? Mah, ha mai provato a ubriacarsi? È bellissimo. Lasci perdere discorsi di morale, che non ho. E poi cos’è che fa bene? Lavorare dalla mattina alla sera per arricchire qualcuno? ».
Lui i conti li ha pareggiati tutti senza arricchire nessuno, a cominciare da sé stesso, quello che ha guadagnato se lo è bruciato in vizi traboccanti come raccontava, quasi al termine della lunga notte che è stata la sua vita, a Giovanna Cavalli che lo intervistava per il Corriere: lui in tuta blu, ciabatte e bastone, occhi spiritati, alternava caffè e sigarette nella casa famiglia che lo ospitava a Passoscuro sul litorale di Fiumicino. Lontano per autodistruzione dalle due famiglie che aveva costruito e poi demolito, e anche da quella di origine, supportato solo dal fratello minore Riccardo.
Una vita di alti e bassi continui, con un tarlo per la recitazione, passione scoperta da bambino nei pomeriggi al Cinema Teatro Maffei di Torino dove c’era «anche la rivista, le ballerine, la musica, il pacchetto completo dell’esistenza». A 20 anni per questo sogno se ne va Roma, galeotto l’incontro con Gian Maria Volontè alla cui porta Flavio va a bussare forse sospettando una certa affinità di sentimenti, entrambi non conformi, rottamatori di sé stessi, fuori schema. «Lui abitava in vicolo del Moro e neanche mi fa entrare, mi trascina in un portoncino per farmi iscrivere al Pci alla sezione lì vicino, la tessera devo averla ancora da qualche parte», poco dopo Bucci è sul set di La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri, per lui Capoccione, «aveva grandi idee ma anche un gran testone, e se sbagliavi ti menava, quante botte ho preso, Volonté no, che era un bestione»; due anni dopo sempre con Petri era ne La proprietà non è più un furto accanto a Ugo Tognazzi («l’unico che sapeva vivere davvero»).
Ma il grande successo nazionalpopolare arriva con la tv e la miniserie sulla vita di Ligabue, quel pittore strambo come lui, irregolare, rachitico, «un matto da manicomio ma che voleva essere amato». Una gran fatica interpretarlo ma più che altro per il trucco (tre ore, lattice sulla faccia e due calotte in testa) per il resto come ha raccontato a Giancarlo Dotto su Diva e Donna, solo istinto e adesione a un’anima storta come lui, subito riconosciuto come fratello: «Ho visto due documentari. Questo è quanto. Me ne sbatto di scuole e maestri. L’unico genio che ho conosciuto nella finzione del gioco si chiama Cesare Zavattini». Poi sono venuti il pianista cieco di Suspiria, il Don Bastiano del Marchese del Grillo, fino al Franco Evangelisti del Divo di Sorrentino, e sempre con il teatro nel cuore: per più di 30 anni Bucci è andato in scena nel Diario di un pazzo di Gogol, per cui non smetteva di tormentarsi: «Andavo in camerino 4 ore prima. Molti pensavano lo facessi per concentrarmi, invece cercavo una scusa per non andare in scena, perché era faticosissimo. In tanti anni, però, mai mi sono dato malato. Per fortuna, perché come mi disse Eduardo De Filippo a Positano, “la cosa più importante per un attore è ‘a salute”».
La droga maggiore per lui e per la sua vita spericolata «è sempre stata la donna. La più sublime, Stefania Sandrelli, incarnazione dell’eterno femminile. Abitavamo sulla stessa strada, uno di fronte all’altra, e ci incontravamo così...». Affabulatore fino alla fine (è morto il 18 febbraio 2020), non ha mai invocato redenzioni: «Non sono stato un buon padre, lo so. Ma la vita è tua e puoi farci quello che vuoi, una somma di errori, di gioie e di piaceri, non mi pento di niente, ho amato, ho riso, ho vissuto, vi pare poco?».