L’ITALIA DEI GRUPPI LE NOSTRE CLASSIFICHE SEMPRE PIÙ A TRAZIONE SOLISTA
La possibilità di fare musica in camera, con un computer e un microfono, è una svolta culturale che ha eliminato il confronto tra ragazzi in sala prove. Il rock perde quota, le alleanze creative (urban, rap, trap, hip hop) funzionano come progetti temporanei
Non è un Paese per band. E non lo è mai stato. Lo scorso anno nella classifica dei 100 album più venduti c’era un solo gruppo italiano: i Pinguini Tattici Nucleari (con due album). Anche allargando l’orizzonte alle coppie (Benji & Fede, Psicologi) e ai collettivi trap (Dark Polo Gang, FSK Satellite) lo squilibrio non cambia. Siamo alla balcanizzazione della musica. Anche quando si cerca un’alleanza creativa rimane un progetto temporaneo come dimostra l’esplosione dei feat che, nella classifica singoli, occupano circa un posto su due.
Non è che nel resto del mondo le band se la passino meglio. Resiste l’Inghilterra con undici posti su 100 per gruppi Uk (e una dozzina di americani), ma tranne le Little Mix è tutta roba del passato, dai Beatles ai Queen ai Green Day.
L’ego trip non ha confini
La musica è cambiata. Il rock si fa in gruppo, eccessi compresi. Vuoi mettere il gusto di sfasciare una stanza di hotel con i tuoi amici del liceo? Il genere sta perdendo quota a favore dell’urban e del rap che parlano invece al singolare. Il mondo hip hop soprattutto, sebbene abbia nelle radici l’idea di collettivo e di posse, è narrazione del riscatto del singolo. Il cerchio si allarga alla crew, al produttore, ma davanti ai riflettori ci va uno solo.
E questo vale in tutto il mondo: l’ego trip non ha confini. La possibilità di fare musica nella propria cameretta, con un computer e un microfono, è una svolta culturale che ha eliminato quel confronto con gli altri ragazzini che come te ronzano attorno alla sala prove e con cui ci fai una band. In Italia però il problema della scarsità dei gruppi è endemico.
Anche il rock da noi è individualista. Vedi alla voce Vasco e Ligabue. Del resto anche la politica, specchio della società, preferiamo farla con partiti da zero virgola. La divisione è l’operazione preferita.
Band d’importazione
Le nostre classifiche sono sempre state a trazione solista. Il simbolo della nostra musica
sono i cantautori, paradossalmente esplosi in quegli anni Settanta in cui nella società prevaleva la dimensione collettiva. Ma anche nel pop abbiamo sempre preferito gli interpreti solisti. Tolti il Trio Lescano, il Quartetto Cetra e i Neri per caso, il gruppo vocale da noi non ha mai avuto successo. Boyband e girlband sono diventate un fenomeno anche da noi a cavallo del millennio, ma erano sempre di importazione.
Spiragli di popolarità
I gruppi hanno avuto degli spiragli di popolarità, delle fasi in cui hanno intercettato un movimento o una moda e si sono presi spazio. Unica eccezione i Pooh che, con alti e bassi, sono riusciti a durare 50 anni e a lasciare le scene con un tour in quegli stadi in cui non erano mai arrivati in carriera.
La prima ondata di gruppo è stata il beat. A metà degli anni Sessanta i complessi beat e le sue camicie a fiori raccontavano alla prima generazione nata dopo la guerra la voglia di libertà e amore assoluto che si respirava nel mondo: Equipe 84, The Rokes, I Ribelli, I Camaleonti e I Giganti (l’articolo nel nome era quasi obbligatorio) portarono un’ondata internazionale nella nostra melodia. Di quella generazione sono rimasti solo i Nomadi, che cambiarono presto pelle per diventare simbolo di impegno sociale, sopravvissuti alla scomparsa di Augusto Daolio grazie alla tenacia di Beppe Carletti.
Nuove strade
Un’epoca d’oro successiva è stata quella del prog. Gli anni Settanta e la psichedelia avevano suggerito
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