A chi somiglia Dio? E se fosse donna?
«Se i buoi e i cavalli avessero mani e potessero disegnare, i cavalli disegnerebbero figure di dei simili ai cavalli e buoi simili a buoi», scriveva Senofane nel VI secolo a.C. E noi, oggi? Quale è la prima immagine che verrebbe in mente pensando a Dio?
Un signore con una barba bianca, in tutta probabilità. Secoli di pittura ci hanno abituato a questa rappresentazione. Un essere di sesso maschile, insomma. Anche quando parliamo di noi, del resto, senza neppure rendercene conto, adottiamo la stessa prospettiva. Si dice «Marco e Giulia sono i miei amici», non «Marco e Giulia sono le mie amiche»: anche la grammatica elementare con cui formiamo le frasi è costruita sulla prevalenza del genere maschile. E infatti «uomo», in italiano, può indicare sia gli esseri umani in generale («gli uomini guidano» vale anche per le donne ovviamente) sia, più specificamente, un maschio («Marco è un vero uomo»; e Giulia?). Convenzioni linguistiche, certo. Ma fino a che punto tutto ciò dipende dal fatto che per secoli si è pensato l’essere di sesso maschile come la norma? Da Aristotele in poi è lunga la lista dei pensatori autorevoli che ha sostenuto questa tesi. Difficilmente, spero, qualcuno (munito di cervello) ripeterebbe la tesi esplicitamente, oggi. Cosa comporta, però, l’adozione di questa prospettiva rispetto al modo in cui noi pensiamo a noi stessi?
Capita sempre più spesso di ricevere lettere, che iniziano con «car* tutt*». Più radicalmente ancora, diverse persone ormai adottano i pronomi femminili, quando si