Io e don Mario (Vargas Llosa) quel giorno a Firenze
COMINCIAMO DAL PIÙ GRANDE (non segue dibattito). Scrive Lello Stefanelli: «Giunto alla conclusione sofferta (per la “sindrome da affezione” che unisce chi legge a personaggi immaginari ma con cui si sia condiviso il piacere di compiere un percorso narrativo) di Tempi duri del superbo Vargas Llosa – autore da me scoperto grazie a lei –, le chiedo: che ne pensa? Io ho trovato il romanzo grandioso e in linea con la pregressa forza narrante dell’autore».
MI INVITA A NOZZE, CARO AVVOCATO. Le racconto una cosa. Firenze, metà degli anni Ottanta, ero un giornalista felice e sconosciuto e la notte scrivevo un romanzo. Ero a poche pagine dalla fine, ma non riuscivo a trovare un buon titolo. Raccontavo la storia di una popstar latinoamericana morta in circostanze spettacolari (Eros & Thanatos), del fratello che gli sopravviveva e coltivava una folle idea, di un aspirante giovane scrittore, innamorato di una certa Gloria, che lavorava come ufficio stampa in un piccolo teatro d’avanguardia fiorentino. Il mio idolo era don Mario Vargas Llosa. Avevo letto tutto di lui. Una mattina piena di sole, mentre andavo a piedi in redazione, vidi uscire da un albergo di via Cavour proprio Vargas Llosa con la moglie. Non credevo ai miei occhi. Li pedinai. Passeggiavano e leggevano le lapidi con i versi di Dante disseminate per Firenze. Attraversarono l’Arno ed entrarono a Palazzo Pitti.
Telefonai da un bar al giornale per dire che ero in ritardo. Poi aspettai al sole. Lo scrittore e la moglie uscirono un’ora dopo. Li fermai e recitai in spagnolo un brano della Zia Julia e lo scribacchino .« Que memoria, señor!», commentò lui.
GLI DISSI CHE ERO UN GIORNALISTA e che la mia deontologia professionale mi obbligava a chiedergli un’intervista. Vargas Llosa rispose che così rovinavo l’incanto di quell’incontro. Era in vacanza. Mi permisi di insistere. Intervenne la moglie dicendogli che almeno un’intervista la doveva al ragazzo che sapeva a memoria i racconti di Pedro Camacho. Disse sì. Nei giorni successivi, come contagiato dall’intervista con Varguitas, finii il romanzo. Gli trovai un titolo. Mandai il manoscritto a Italo Calvino... Ah, dimenticavo, Tempi duri è bellissimo, bellissimo come i vecchi romanzi di don Mario. Lo sto imparando a memoria.
PAOLO URBANI: «Senza dubbio Maradona è stato un grande giocatore, ma non credo (come lei dice) che fosse in missione per conto di Dio per il semplice motivo che il suo comportamento fuori campo non è stato proprio esemplare (cinque figli da varie donne, altri sei non riconosciuti da altre donne, droga). Inoltre, non capisco come Maradona abbia rivinto la guerra delle Falkland anche metaforicamente parlando».
La invito a un piccolo esercizio di chiromanzia: è tutto scritto nella “mano de Dios”.
DA GIOVANE LO INCONTRAI CON LA MOGLIE E GLI RECITAI A MEMORIA IN SPAGNOLO UN BRANO DI ZIA JULIA E LO SCRIBACCHINO
GIORGIO BRACCIANI interviene a proposito della mia passione per lo stile futbolístico del campione danese Christian Eriksen: «Caro D., in quanti sono in grado di capire la sua battuta “C’è del calcio in Danimarca”? Neanche Scespir». Forse ha ragione lei. Temo che oggi Flaiano sarebbe un disoccupato.
CARTA D’IDENTITÀ