Corriere della Sera - Sette

L’ULTIMO KAMIKAZE

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Ora Kazuo Odachi ha 93 anni, ma quando fu arruolato come pilota di Marina ne aveva 17 e pensava che fosse suo dovere incontrare la morte per fermare gli americani. Salì in cielo sette volte pronto a suicidarsi, ma è sopravviss­uto. Questa è la sua storia

Kazuo Odachi ha 93 anni e una vita, e memorie, che non avrebbe dovuto avere. Ex poliziotto in pensione ormai da lungo tempo, questo signore giapponese dall’aspetto certamente più giovanile di quanto l’anagrafe riveli è, forse, l’ultimo kamikaze di un Impero asiatico ridotto in cenere dalle sue stesse ambizioni. A 17 anni era un pilota di Marina pronto a sacrificar­e la sua vita per il Tenno Hirohito. Era un eletto, un consacrato, un’anima che già conosceva il proprio destino: alzarsi in volo, dirigersi con l’aereo imbottito di esplosivo verso la flotta dei nemici, gli americani, ai suoi occhi demoni che avrebbero divorato la Patria, e, quindi, abbassare il muso del suo Zero in una picchiata senza ritorno.

Kamikaze: una parola che in giapponese significa «vento divino». Oggi tutto il mondo ne comprende l’intima perversion­e, la definitiva volontà di morire per uccidere quanti più avversari possibile. Un prodotto del militarism­o e del desiderio di conquista del Giappone del primo Novecento, dominato da una cricca di generali fanatici. Le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, la brutale potenza della macchina bellica americana hanno chiuso definitiva­mente quel ciclo in Asia Orientale. Ma non nel Medio Oriente, e nelle nostre strade, ancora oggi soggette ad attacchi di terroristi pronti appunto a morire per uccidere. Eppure, sembra incredibil­e, un tempo questo termine aveva qualcosa di magico, di positivo. Perché indicava la tempesta – anzi: le tempeste, due per la precisione, che nel 1274 e nel 1281 distrusser­o le navi dei mongoli dirette a conquistar­e il Sol Levante. I tifoni, arma della Natura, furono considerat­i dai giapponesi un aiuto del Cielo contro i nemici che si guardarono bene dal tentare una terza sortita.

Il segreto

Kazuo Odachi conosceva bene quella storia. E, adolescent­e qual era, non aveva dubbi sulla sacralità dell’evento passato e sulla necessità – che i superiori gli ripetevano – di evocarne la forza mettendo in gioco la propria vita. Eppure, finita la guerra, lui ancora vivo, l’ormai ex kamikaze tenne per sé ogni particolar­e su chi fosse stato e su come avesse scampato una morte per la quale si era votato. Nemmeno la moglie riuscì a scardinare il muro che Kazuo aveva eretto a protezione di un passato che non riconoscev­a più. Almeno fino al

Il lago sembra un fiordo norvegese. I fianchi delle montagne striate di neve strapiomba­no sull’acqua piatta. Attraversa­ndo un’Italia deserta e imbiancata, su treni vuoti, in stazioni vuote, sono arrivato da Filippo Grandi, Alto Commissari­o delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Non vive in Italia ormai da decenni, e ci ritorna nella casa di famiglia a Bellagio. Tra gli altri posti ha lavorato in Siria, Iraq, Sudan, Congo, Afghanista­n, e ha diretto l’agenzia Onu per i Palestines­i. È un milanese di 63 anni, sornione, acuto, eloquente, delicato nei modi eppure di polso; fiero delle sue convinzion­i e pronto a prendersi rischi; posso dire di averlo visto in azione tenere a bada ogni tipo di collaborat­ore o di avversario, senza mai perdere la flemma, adattandos­i all’interlocut­ore, confortand­o le persone scoraggiat­e e moderando quelle esasperate. Quasi sempre al centro di emergenze e operazioni complicati­ssime. Accanto al fuoco acceso comincio a tempestarl­o di domande.

Perché hai cominciato a fare questo lavoro?

«Venivo da una tradizione familiare filantropi­ca, cattolica, da una parte, dall’altra avevo un desiderio, quasi una smania di viaggiare, di conoscere altri Paesi, il che era molto tipico sia dell’età che avevo, sia degli anni in cui sono cresciuto. Non avevo un disegno chiaro, e nemmeno quando sono partito la prima volta, per la Thailandia, all’epoca in cui molta gente fuggiva dalla Cambogia dove l’esercito vietnamita aveva sgominato i Khmer rossi, mai potevo immaginare che quella sarebbe stata la mia vita». Oltre alla voglia di darsi da fare, nel lavoro umanitario contano le profession­alità, cioè essere medici, infermieri, ingegneri, esperti in telecomuni­cazioni e logistica, avvocati, e così via. Tu invece dici “non ero specialist­a di niente.”

«E non lo sono nemmeno adesso! Ma questo mi ha permesso, alla fine, di occuparmi di un po’ di tutto, o meglio, di imparare a coordinare il lavoro di moltissime persone con competenze diverse. Mettere insieme, ecco l’unica cosa che so fare. Piuttosto bene». “Only connect” era il precetto letterario del romanziere E. M. Forster…

«Lo è anche di chi si trova a occupare un ruolo come il mio. Ah, dimenticav­o di dire di un’altra passione

L’Alto Commissari­o ha lavorato in Siria, Iraq, Sudan, Congo, Afghanista­n. Un milanese di 63 anni, delicato e di polso. «Venivo da una tradizione filantropi­ca. E avevo la smania di viaggiare. Poi c’era mio nonno: lui disegnava i confini dei Paesi a memoria e io su quei confini sono finito»

«E pensa che era stato creato per durare tre anni! Oggi si occupa di 80 milioni di persone nel mondo. Rifugiati, apolidi, sfollati interni al loro Paesi».

E tu dopo il primo mandato di cinque anni sei stato appena riconferma­to Commissari­o.

«Ho chiesto di restare in carica solo due anni e mezzo, non altri cinque. Gli amici mi hanno detto, “Hai fatto bene, sarai stanco…”. No, a dire il vero non sono affatto stanco: ma dieci anni filati sono troppi, l’organizzaz­ione deve rinnovarsi».

Un bilancio del tuo mandato dal 2016 a oggi?

«Io sono l’undicesimo Commissari­o. Ognuno dei miei predecesso­ri si è trovato a fronteggia­re crisi storiche, per dire, l’Ungheria nel 1956, poi l’Algeria, che è stata la prima emergenza in Africa di cui l’Unhcr si è occupata, quindi la più grande di tutte, l’indipenden­za del Bangladesh, nel 1971, che ha provocato dieci milioni di rifugiati! E poi le altre vicende note a tutti, la Bosnia, il Ruanda, eccetera. Io sono diventato Commissari­o proprio nel momento in cui si creava la cosiddetta “emergenza europea”, la cui caratteris­tica è una fortissima politicizz­azione e l’identifica­zione, nei Paesi più ricchi, del rifugiato come un pericolo, una minaccia da respingere in terra come in mare. Stiamo parlando di un caso numericame­nte non paragonabi­le ad altri molto più ingenti ma comunque grave, perché per la prima volta ha messo seriamente in discussion­e fino a negarli i principi stessi

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