NOI, METICCI FIGLI DELLA COLONIZZAZIONE «STORIA DI MIO NONNO, TROPPO NERO PER GLI ITALIANI TROPPO BIANCO PER GLI AFRICANI»
I meticci: figli di matrimoni misti tra coloni italiani e donne africane. Un tema poco conosciuto in Italia, ma che è parte centrale della sua storia personale, la biografia della sua famiglia. Cosa l’ha spinta a scriverne un libro?
«Non è stato facile. Dentro di me ho resistito parecchio. Ho impiegato oltre sei anni», risponde Vittorio Longhi autore di Il colore del nome (Solferino) «Da giornalista sono abituato a scrivere le storie degli altri, non la mia. Ma proprio il crescere di xenofobia e razzismo mi ha indotto a farlo. E non solo per parlare dei migranti o dell’antisemitismo. Ricordando le vicende del mio bisnonno Giacomo Longhi, padre del nonno Vittorio da cui viene il mio nome di battesimo, mi sono reso conto che raccontano di questo antico compenetrarsi tra Africa ed Europa. Il piemontese Giacomo approdò nel 1890 in Eritrea convinto, come si pensava tra gli europei di allora, di portare modelli di civiltà superiore tra le
Vittorio Longhi, giornalista d’inchiesta sulle rotte migratorie, racconta il percorso della sua famiglia. Un memoir sull’onda lunga di un passato con cui l’Italia non ha fatto i conti fino in fondo. «Ci hanno abbandonati in Eritrea. A Roma non c’è mai stata una Norimberga»
E dunque, se è stato un sol uomo, ha aspettato l’allontanamento a bordo di un taxi dell’amica di Salvina prima di salire da lei, si è seduto con Adele Margherita davanti a due bicchierini di liquore e un vassoio di caramelle Sperlari, ha seguito Alba in un umido sottoscala, ha osservato Olimpia posare le mani sulla sottana marrone…
Anche Milano ha (avrebbe avuto) il suo serial killer. Nascosto negli anni Sessanta e soprattutto nei Settanta. In una città terrorizzata da brigatisti, guerre tra clan criminali, sequestri di persona, rapine a mano rigorosamente armata e colpo in canna, e una rabbia di popolo istantanea, ferale: delitti per strada, sui ballatoi delle case di ringhiera, nelle fabbriche, nei negozi; bastava un’occhiata oppure una parola e scorreva il sangue.
Una rabbia in certe stagioni innescò una media di un omicidio a settimana.
La contro-inchiesta
Forse non è vero che dinanzi alla morte – quantomeno la morte per assassinio – siamo tutti uguali. In conseguenza non magari di una scelta: semmai, di un residuale tempo per gli investigatori, dell’assenza di risorse e uomini altrove dirottati, di oggettive ancorché ingiuste limitazioni.
Forse, all’epoca, la ricerca della verità del cosiddetto delitto politico sopravanzava il cosiddetto delitto comune. Quale però non dovrebbe esser stato nel caso di almeno otto donne, ragionando sui recenti studi del criminologo Franco Posa che ha avviato questa contro-inchiesta a sue spese e ipotizzato una mano comune.
Un uomo, innescato da un’ira spropositata, dal 1963 al 1976 avrebbe assassinato preferendo un coltello la commessa Salvina Rota, l’affittacamere Adele Margherita Dossena, la venditrice ambulante Alba Trosti, le prostitute Olimpia Drusin, Elisa Casarotto e Tiziana Moscadelli, la stilista Valentina Masneri e la dirigente della Montedison Simonetta Ferrero, vittima del caso più mediatico, il delitto della Cattolica.
Morti senza giustizia. Le premesse sopra menzionate, relative a un vortice di atroci reati in quel tragico periodo che tolsero spazio e tempo a qualsiasi altra inchiesta, rappresentano una spiegazione parziale sull’assenza di un colpevole in ognuno di questi casi. Precisazione che peraltro non deve sembrare irrispettosa nei confronti dei prodigiosi magistrati, alcuni dei quali trucidati dai terroristi, e degli altrettanti poliziotti e carabinieri che diedero la caccia agli assassini, mai ipotizzando in via ufficiale un unico uomo in azione.
Eppure, non fosse per gli accertamenti di Posa, rivelati a inizio gennaio dal Corriere e rafforzati dall’intervista alla figlia di
Le vittime avevano storie molto diverse ma vivevano dentro un triangolo chiuso tra via Filzi, piazza Cordusio, via Pace. Molte aprirono la porta all’assassino. Un criminologo e un avvocato indagano sulla catena di delitti che insanguinarono la città negli Anni 60 e 70. Il sospetto: la mano era la stessa
tribù primitive locali. Si unì con una donna del posto e i loro discendenti sono parte di quelle generazioni di euro-africani, o africani-europei a seconda dell’enfasi che si vuole dare alla loro identità, componenti di vicende collettive di cui si parla pochissimo. A differenza di altre esperienze coloniali come quella francese, belga o britannica, l’Italia ha completamente dimenticato la propria storia in terra d’Africa e le sue conseguenze dopo la fine della Seconda guerra mondiale».
Quanti sono i discendenti delle unioni miste nelle colonie?
«Tra Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia si calcola siano nati almeno 20.000 meticci. Una stima per difetto. Questi poi ebbero figli e nipoti, che diventarono parte di una collettiva problematica identitaria. Per lo più si trovavano in Eritrea per il fatto molto evidente che fu la colonia dove gli italiani governarono più a lungo, oltre sessant’anni. Almeno 2.000 di loro ricevettero la cittadinanza italiana, come fu il caso dei miei nonni. Ma la grande maggioranza fu totalmente esclusa».
E in Europa?
«Il numero globale non si conosce. Però la Francia ha affrontato apertamente il tema, specie dopo la guerra d’Algeria. In Belgio sono tra i 20.000 e 30.000. Due anni fa l’ex premier Charles Michel chiese pubblicamente scusa e da allora nei loro confronti sono stati adottati provvedimenti di indennizzo volti a facilitarne l’integrazione. In Italia zero».
Lei scrive di suo nonno Vittorio che era «troppo nero per essere completamente accettato dagli italiani, ma troppo bianco per gli eritrei». Una categoria di persone perennemente al margine, meticci dall’integrazione negata.
Dossena, l’attrice Agostina Belli, l’inseguimento di una soluzione ai delitti sarebbe stata ancora procrastinata. Il futuro non sarà comunque semplice. La richiesta in procura dei fascicoli da parte dell’avvocato Valter Biscotti, uno dei massimi penalisti italiani ed esperto di cold case, al di là dell’effettiva opera di rintraccio dei faldoni non germoglierà per forza risultati immediati. Gli scantinati del palazzo di giustizia sono stati flagellati dalle infiltrazioni e dall’umidità, ed è da vedere lo stato di conservazione dei documenti, per tacere dei reperti delle scene del crimine, nella speranza stiano dove devono stare anziché esser spariti oppure rovinati.
Le donne erano in maggioranza stessa Dossena, uccisa a coltellate nel 1970. Una, la più giovane, immigrata friulana, dapprima parrucchiera quindi prostituta, due sorelle che lavoravano come stiratrice e portinaia allo Stadera e a Porta Romana; l’altra, Adele Margherita, milanese della periferia del Lorenteggio, due figlie ventenni, una pensione da tirare avanti nella zona tra Porta Venezia e la stazione Centrale.
Allora, come accaduto nella genetica dell’area Garibaldi, oggi orizzonte di grattacieli, il quartiere era un postaccio, tanto che si parlava della casbah di via Panfilo Castaldi e dei suoi disgraziati dintorni: bische, rifugi di banditi e ladri, aggressioni, le prostitute in attesa sul marciapiede come Olimpia e un labirinto di locande
Non c’è stata una Norimberga a Roma. Si è preferito nascondere tutto sotto il comodo tappeto della narrativa per cui tutto il male era da attribuire al fascismo, dimenticando peraltro che le colonie precedono di gran lunga l’avvento di Mussolini, tranne l’avventura etiope, che durò soltanto sei anni».
Nel 1947 Ennio Flaiano vinceva il Premio Stregua con il suo Tempo di uccidere, che tra l’altro metteva a nudo la violenza impunita sulle donne africane.
«L’avevo letto a 16 anni e l’ho riletto prima di scrivere questo libro. Sì, un testo coraggioso, che denuncia la vigliaccheria del periodo, l’inutilità e lo spreco delle colonie, la mancanza di sensi di colpa».
Come guarda però alle decine di migliaia di coloni italiani spogliati di tutto e cacciati dalle colonie dagli inglesi, oppure a quelli espulsi dalla Libia di Gheddafi?
«Conosco bene il problema. Erano parte della mia famiglia. Nonno Vittorio fu assassinato da eritrei che volevano l’annessione all’Etiopia dopo la guerra e lo accusavano di collaborazionismo con gli italiani. Molti coloni neppure si rendevano conto delle ingiustizie perpetrate contro i locali».
Che fare dei migranti?
«Occorre un approccio razionale. Dobbiamo uscire dalla dicotomia tra buonisti paternalisti, che li vorrebbero accogliere tutti, e invece razzisti favorevoli ai porti chiusi. L’Europa deve regolare i flussi, darsi codici di comportamento per scegliere a seconda delle necessità. Dobbiamo distinguere tra chi scappa dalle persecuzioni e chi viene per motivi economici. Anche questi ultimi possono venire integrati a seconda dei bisogni del mercato del lavoro».
in parte: forse voleva nascondere errori commessi, delle tracce, che invece non avrebbe lasciato – meglio dire non ha, poiché nulla è stato rinvenuto – sull’assai caotica scena del crimine.
Il disordine rimase una delle costanti cristallizzate nei delitti degli appartamenti. La frenesia di voler mettere a soqquadro l’abitazioneufficio, al secondo piano della pensione di Dossena, fu un bluff per simulare una rapina in quanto, ha ricordato la figlia Agostina, un orologio d’oro venne lasciato lì dov’era, in mostra su un mobile. Allo stesso modo, nessun ammanco riguardò i beni di Valentina e non può apparire una casualità il fatto che i soldi nelle borse di Olimpia ed Elisa non vennero toccati, e lo stesso avvenne, ha detto il figlio, per un portachiavi di valore sul cruscotto della macchina della stessa Drusin.
Il killer è tra noi?
In base a una mappa elaborata da un sofisticato e costoso software americano, e fatta propria da Posa e il suo staff, esiste una rigorosa area di Milano dalla forma triangolare, compresa fra via Filzi, piazza Cordusio e via Pace. All’interno della mappa, in quegli anni l’assassino ha sostato per almeno otto ore al giorno. Forse possedeva un’abitazione, forse il posto d’impiego.
Le elaborazioni del software non spostano le coordinate di partenza nemmeno aggiungendo ulteriori delitti di donne avvenuti all’epoca, in città e in provincia, e forse, in seguito a riscontri, a breve inseriti nell’elenco del criminologo. In periodi diversi, le vittime avrebbero incontrato l’assassino stabilendo una relazione. Si ignora di quale tipo e quale durata.
Forse le donne erano le clienti di un medesimo ciabattino, fruttivendolo, sarto, uno che aveva confidenza a presentarsi a domicilio e tutto poteva portare tranne che la morte.