VITE DA REMOTO
Fino a un anno fa, ci domandavamo come uscire dal pantano del mondo liquido, che spingeva le persone a isolarsi. Poi la pandemia ha fatto da acceleratore nella dipendenza dalla tecnologia e il futuro ci è piombato addosso. E ora? I legami definiti «deboli» stanno diventando forti
egoistici, riducendo la solidarietà e la comprensione per gli altri. Perché è chiaro che l’isolamento impedisce lo sviluppo della personalità, provoca ansia, insoddisfazione e aggressività. Per questo la ricerca ossessiva del riconoscimento ha finito per divenire la pratica più frequente sui social. Si cercano le amicizie su Facebook più per essere riconosciuti che per conoscere, si postano foto su Instagram per ricevere like di ammirazione, si twitta e si chatta per trovare l’approvazione delle proprie idee. Senza riconoscimento si ha la disperante sensazione di non esistere.
Il riconoscimento, che secondo il filosofo e politologo tedesco Axel Honneth è «la conoscenza attiva di sé stessi», nell’ultimo scorcio di secolo è divenuto uno dei maggiori problemi che angustiano l’individuo e mettono in discussione la sua identità. Perché da questo dipende la consapevolezza di sé, il ruolo sociale. E non è qualcosa che ci si possa dare da soli, un riconoscimento fai-da-te. Dipende invece da quanto gli altri sono disposti a riconoscerci. Si tratta quindi di una questione sociale e come tale ottenuta unicamente in rapporto alla società.
Essere riconosciuti per esistere
Va detto subito che nella comunità il riconoscimento è implicito, avviene automaticamente in forza del dono reciproco, mentre nella società deve essere guadagnato. Ha dunque un costo, tanto più alto quanto più la società è complessa. Nelle crisi sociali il riconoscimento è negato per una serie di motivi, tutti rintracciabili nello squilibrio che si viene a creare. Per la precarizzazione del lavoro,
CARTA D’IDENTITÀ
ad esempio. Il lavoro, in quanto dignità della professione svolta, è uno dei più potenti fattori identitari che comportano il riconoscimento sociale. Quando la comunità è lontana e la famiglia non assolve la sua funzione riequilibratrice si vanno ricercando i segni della comunità dove sono ancora vitali o costruibili ex novo. Come nelle bande giovanili o nelle “tribù” di cui parla il sociologo francese Michel Maffesoli; tentativi maldestri di ricreare legami comunitari attraverso riti, abbigliamenti, linguaggi. Ma anche comunità temporanee, che si formano subitamente negli stadi, nelle piazze o ai concerti e fanno sentire coesi e riconosciuti fino al rientro a casa.
La rete ha rappresentato la grande occasione di costruire comunità virtuali e di ottenere un riconoscimento più ampio, sempre disponibile, dove è possibile esistere in assenza di corporeità. Popolata di emozioni, occasioni, conoscenze, conseguenze. In forma di gioco gratuito e (in apparenza) poco impegnativo, è sembrato a molti di ritrovarvi la comunità perduta, l’opportunità capace di restituire qualche certezza e il riconoscimento di sé.
La rivalutazione delle emozioni
Adesso, sul piano comportamentale si rafforzano i legami a distanza, quelli definiti “deboli”, dai quali dipende la nostra capacità di relazionarci, crescere, trovare occasioni di lavoro, essere riconosciuti. Psicologicamente assistiamo alla rivalutazione delle emozioni, poiché il distanziamento e l’isolamento devono essere compensati dalla ricerca delle qualità