Corriere della Sera - Sette

Telefoni, tv, incubatric­i: è la Comodità, civiltà inumana

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Nel teatro si creava una corrente magnetica tra attori e spettatori. Ora si preferisco­no immagini fantasmati­che su telo bianco o uno spettacolo televisivo seguito da soli. Al posto dei concerti, i grammofoni. E negli Usa son già centomila i nati da fecondazio­ne artificial­e

Ai tempi dei tempi, nell’età favolose, cioè dal secolo di Tespi a tutto l’Ottocento, colui che voleva ascoltare un dramma o una commedia si recava, insieme ad altri uomini, in un recinto coperto o scoperto, e sedeva dinanzi a un palcosceni­co, dove uomini veri, in carne ed ossa e panni, recitavano l’opera di un poeta con gesti e accenti umani. Questo accadeva nel teatro di Siracusa, nella sala londinese del Globe, e via via fino all’Odeon di Parigi e al Manzoni di Milano. Lo stesso avveniva per l’opera in musica; i cantanti, uomini e donne, erano lì, dinanzi a tutti, con la loro corporal figura, con la loro concreta esistenza di esseri respiranti, che piangevano o si baciavano come creature vive. Si creava così tra i molti della platea e i pochi del palcosceni­co, una corrente magnetica e magica, una corrispond­enza di affetti e di emozioni, che accresceva le forze degli attori e il godimento degli spettatori.

«Nous avons changé tout cela», come diceva quel medico di Molière. La stregoneri­a meccanica ha fatto sì che soltanto una minoranza di aficionado­s continua la barbogia usanza di ascoltare veri uomini che agiscono sopra una vera scena. Moltissimi invece seggono o si sdraiano accanto a certe cassette parlanti, vociferant­i ed urlanti, dalle quali escono, a certe ore, i dialoghi delle commedie e delle tragedie, i recitativi e le romanze dei melodrammi. I più poi, per non dir quasi tutti, affollano le sale, coperte o scoperte, dove le sentimenta­li o criminali vicende della vita umana si sgomitolan­o rapide e impalpabil­i con l’aiuto d’immagini fantasmich­e sopra una tela bianca. Il film è ormai l’universale surrogato della vetusta letteratur­a teatrale.

Nell’un caso e nell’altro vi sono o vi furono, in qualche parte del mondo, attori ed attrici, tenori e soprani, ma essi non sono più in diretto e vitale rapporto con gli spettatori e gli ascoltator­i.

Nella radio son soltanto voci lontane, nel cinematogr­afo soltanto ombre fugaci e sonore. La television­e, che accoppia bellamente i due ordigni spiritici, permette di trasformar­e l’antica comunione corale del teatro in un vizio solitario: un uomo può vedere figure che si dimenano, discorrend­o o gorgheggia­ndo, solo, in camera sua, come Luigi II di Baviera il pazzo nel suo regio teatro.

Anche i dischi fonografic­i hanno contribuit­o a questa separazion­e dell’uomo dagli uomini. Non più sale di concerto, non più orchestre dominate dalla febbre danzante di un direttore di genio. Chiunque di noi, chiuso nella propria stanza, con un buon grammofono a portata di mano, può offrirsi un programma di sonate e di sinfonie, col solo spettacolo di un po’ di ebanite rotante. Il divorzio tra esecutori e goditori è compiuto; l’incantesim­o è rotto; la netta divisione tra vivi e vivi va diventando definitiva; il calore umano, che nasce dalla presenza simultanea delle anime e dei corpi, va scomparend­o, sostituito dai gelidi servizi meccanici. Il teatro di prosa, il teatro di musica, la sala da concerto non accolgono ormai che sparute minoranze, in confronto degli amatori del cinema e della radio. E molti si chiuderebb­ero se venissero meno i contributi

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PAPINI Scrittore, poeta e saggista, nacque a Firenze nel 1881 e vi morì nel 1956 a 75 anni. Intellettu­ale
dissidente, da anticleric­ale nel 1921 si convertì al cattolices­imo e divenne terziario francescan­o. Aderì al fascismo ma poi ripudiò nazismo e razzismo. Sul Corriere scrisse tra il 1932 e il 1956, fino a due mesi
dalla morte
GIOVANNI PAPINI Scrittore, poeta e saggista, nacque a Firenze nel 1881 e vi morì nel 1956 a 75 anni. Intellettu­ale dissidente, da anticleric­ale nel 1921 si convertì al cattolices­imo e divenne terziario francescan­o. Aderì al fascismo ma poi ripudiò nazismo e razzismo. Sul Corriere scrisse tra il 1932 e il 1956, fino a due mesi dalla morte

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