Sgridate come raffiche di vento. E poi, amore
Ci sono volte che hai paura, pensi che spezzare una volontà, umiliarla per punire un errore, sia più pericoloso che provare a piegarla, nonostante il tempo e la fatica che comporta, e la elevata probabilità di insuccesso. Più che mai quando ti trovi di fronte a un ragazzo che, per sua indole, sembra più disposto a spezzarsi che a lasciarsi piegare. La mente ti dice: sii inflessibile. Ma il cuore sanguina nel vedere la sofferenza di chi, a quella età, è spasmodicamente impegnato in un gioco di “mosca cieca” con la vita per formarsi un’identità, ed è angosciato dal rischio di non farcela. Certe volte ti fanno rabbia. Sembra che non sia più rimasto neanche uno spiraglio aperto per comunicare e farsi ascoltare, per penetrare la stoffa di quel cappuccio della felpa sempre tirato sulla testa, nessuna via di accesso per entrare nel loro essere, che non molti mesi fa ancora si abbandonava completamente tra le tue braccia, e ti si arrampicava sulle spalle per vedere il mondo dalla tua altezza. Non li riconosci più. Stranieri in casa. Così spaventati e insieme incantati da ciò che gli succede da aver vergogna di parlarne; una disperazione che dissimulano con l’orgoglio, mettendo il muso e togliendoti il saluto, non rispondendo più ai tuoi richiami, ottenendo così il miracolo del capovolgimento del senso di colpa, che finisce tutto a te.
È in momenti come questi che si comprende quanto inadeguato sia il modello educativo premio/punizione, se applicato alla specie umana. Funziona con un cane, non con un figlio. E viene da pensare che l’unico modo di riprendere il filo di un discorso stia invece proprio nel tornare al sistema di prima, al gioco stimolo/risposta che funzionava così bene quando erano piccoli, a una vera e piena interazione affettiva. Nessun ragazzo seguirà un consiglio se non si sente amato senza condizioni dall’educatore che glielo sta dando. Specialmente quando riguarda il rendimento scolastico, vera e propria dannazione nel rapporto genitori-figli.
Andar bene a scuola è importante, molto importante. Ma non è l’unica cosa che conti, non al rischio di perdere di vista l’essenziale. Diceva Natalia Ginzburg: «Non dobbiamo lasciarci prendere, noi genitori, dal panico dell’insuccesso. I nostri rimproveri devono essere come raffiche di vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore alla vita, né sia oppresso dalla paura di vivere». È questo che conta. Vieni qua, dammi un bacio.
Punire o abbozzare? Questo è il dilemma, altro che essere o non essere. La vita di un genitore è tutta qui, in questa scelta quotidiana: nel dosaggio delicato, quasi da farmacista, tra la severità e l’indulgenza, tra la protezione e la punizione. Non è facile scegliere. Anche per chi, come me, si è convinto da tempo che il dottor Spock abbia fatto molti guai e che ai figli i «no» facciano bene.