GIULIA CAMINITO «NON MI SONO MAI GODUTA NIENTE: HO UNA FAME INGESTIBILE, L’ANSIA DI RESTARE A GALLA MI TRAVOLGE»
parla di un essere umano in modo indeterminato. L’esperimento è interessante: provare a pensare alla realtà da un punto di vista femminile. I maschi non si pongono molto spesso il problema; neppure le donne, a quanto risulta da alcune ricerche. E invece: e se Dio fosse una donna? Quest’ultima domanda non ha molto senso, probabilmente. L’idea stessa di un Dio che ci assomiglia è infantile, spiegava appunto Senofane. Ma quando si parla di noi? Se il modello di riferimento fosse femminile, non cambierebbe qualcosa? Molte pensatrici, negli ultimi anni, da Simone de Beauvoir a Luce Irigaray e Rosi Braidotti, hanno insistito sul punto, contestando la legittimità della costruzione dell’idea di donna come qualcosa che si definisce in negativo, come l’altro dall’uomo. Un problema fondamentale, nelle nostre società, è quello di garantire un’eguaglianza concreta, reale (ad esempio in termini di salario) tra uomini e donne. Ma non meno urgente è il problema opposto. Sono differenti, femmine e maschi, e occorre imparare a pensare la differenza senza che questo si traduca in gerarchie di valore (ovvio che maschi e femmine sono differenti; e ovvio che i maschi sono superiori! Per secoli si è pensato così, no?).
In fondo, è l’ennesima variazione di quello che è il problema fondamentale del nostro tempo: costruire un equilibrio tra prospettive e opinioni diverse, senza pretendere di essere i soli che hanno sempre ragione. Nel rispetto delle differenze, dunque: tra civiltà diverse – la questione del razzismo e del multiculturalismo –, e tra esseri umani diversi – tra femmine e maschi. Provare ad arricchire i punti di vista, uscendo dal conforto delle proprie certezze, è il primo passo. Ed è un esercizio interessante per scoprire quante volte quello che sembra scontato non lo è per niente.
nell’impresa è una rarità. Questa ricerca è splendidamente descritta nell’ultimo romanzo di Giulia Caminito L’acqua del lago non è mai dolce, Bompiani. Io e Caminito siamo praticamente coetanei. Le paure, i desideri, i traumi e le gioie che hanno cadenzato i nostri primi anni di esistenza sono quelli della nostra generazione. Flotta di disgraziati, ben nutriti e viziati, che emozionalmente un’educazione non l’ha ricevuta. Cresciuti in una notte, con il capo chino sotto il giogo dell’incertezza e alla ricerca di un senso di sazietà che non arriva mai, la generazione mia e di Caminito viene dipinta come furibonda, truce e ingrata. Sentimenti che forse ci appartengono, sì, ma che una ragion d’essere ce l’hanno.
L’acqua del lago non è mai dolce va alla ricerca di queste ragioni. Attraverso la crescita e gli occhi di Gaia, bambina confusa, adolescente rabbiosa e, infine, giovane donna famelica, l’autrice illumina le zone d’ombra di un’intera generazione. Con una lingua dura e una storia potente fatta di vita vissuta e finzione. Gaia, da Roma, si trasferisce con la famiglia — una madre altera e testarda, un padre rimasto disabile sul lavoro, un fratellastro ribelle, due fratellini gemelli — in un paesino sul lago di Bracciano, periferia del mondo. E lì, dalla fanciullezza all’affaccio sul mondo adulto, tra amori brevi e amicizie profonde, tra fiammate d’ira e la scoperta della sessualità, dovrà costruire il proprio posto. Ciò che mi sono chiesto, leggendo il romanzo, è se la sua autrice il suo posto l’abbia trovato.