Corriere della Sera - Sette

A chi somiglia Dio? E se fosse donna?

-

«Se i buoi e i cavalli avessero mani e potessero disegnare, i cavalli disegnereb­bero figure di dei simili ai cavalli e buoi simili a buoi», scriveva Senofane nel VI secolo a.C. E noi, oggi? Quale è la prima immagine che verrebbe in mente pensando a Dio?

Un signore con una barba bianca, in tutta probabilit­à. Secoli di pittura ci hanno abituato a questa rappresent­azione. Un essere di sesso maschile, insomma. Anche quando parliamo di noi, del resto, senza neppure rendercene conto, adottiamo la stessa prospettiv­a. Si dice «Marco e Giulia sono i miei amici», non «Marco e Giulia sono le mie amiche»: anche la grammatica elementare con cui formiamo le frasi è costruita sulla prevalenza del genere maschile. E infatti «uomo», in italiano, può indicare sia gli esseri umani in generale («gli uomini guidano» vale anche per le donne ovviamente) sia, più specificam­ente, un maschio («Marco è un vero uomo»; e Giulia?). Convenzion­i linguistic­he, certo. Ma fino a che punto tutto ciò dipende dal fatto che per secoli si è pensato l’essere di sesso maschile come la norma? Da Aristotele in poi è lunga la lista dei pensatori autorevoli che ha sostenuto questa tesi. Difficilme­nte, spero, qualcuno (munito di cervello) ripeterebb­e la tesi esplicitam­ente, oggi. Cosa comporta, però, l’adozione di questa prospettiv­a rispetto al modo in cui noi pensiamo a noi stessi?

Capita sempre più spesso di ricevere lettere, che iniziano con «car* tutt*». Più radicalmen­te ancora, diverse persone ormai adottano i pronomi femminili, quando si

Gaia, fin da ragazzina, ha un rapporto un po’ particolar­e con i libri. Per lei è stato lo stesso?

«Io, in realtà, quand’ero ragazzina dai libri volevo prendere le distanze. Il fatto è che in famiglia erano troppo presenti, casa dei miei era ed è ancora oggi invasa dai libri. Ne hanno così tanti che in giro hanno dovuto aggiungere quelle librerie simili a separé. Tempo fa qualcuno ha regalato a mia madre una collezione di vecchi romanzi di fantascien­za e loro, pur di prendersel­i, li tengono impilati sui divani». C’è stato un rigetto, quindi?

«Non lo definirei così. Volevo che il mondo dei libri facesse parte del mio, della ragazzina che ero, ma a modo mio. I libri li leggevo, ma quelli che volevo io. Le cose le facevo, ma come volevo io».

Che intende?

«Un esempio. A tredici anni, per puro caso, andai alla serata finale del Premio Strega. E ci andai vestita secondo i miei gusti, le mie regole. Sembravo una Spice Girl, ero oscena! Zeppe di plastica, gonna a tubino con fiori giganti e top che mi lasciava scoperta la pancia. Insomma, ero vestita come una pazza». Ribellione?

«Tentativo di definizion­e, direi. Le cose, come dicevo, volevo farle a modo mio».

Quindi quando si è avvicinata a libri e letteratur­a?

«All’università. Per cinque anni non ho letto neanche un romanzo, quelli sono arrivati solo a università conclusa».

Il primo romanzo letto dopo questo periodo di saggistica ininterrot­ta?

«Dave Eggers, L’opera struggente di un formidabil­e genio, è stato il libro con cui ho inaugurato una nuova fase della mia vita, per certi versi ha coinciso con l’affaccio sul mondo nuovo, quello fuori dalla provincia dell’infanzia».

Com’è stato l’incontro con quella nuova realtà?

«Traumatico. Lasciato il paese, mi sono trasferita a Roma e sono andata a vivere per un po’ a casa di una coppia di amici dei miei. La figlia era in Erasmus, così io ho preso la sua stanza ma non potevo toccare niente. Non potevo neanche usare l’armadio, tenevo i vestiti poggiati su delle sedie di plastica». Una realtà pratica, dura.

«Sì, la sensazione è stata quella. Anche perché ho iniziato subito a lavorare in casa editrice e pure lì ho trovato una realtà dura, come la definisci tu. L’editoria è un mondo complicato, è difficile trovare un impiego fisso e ben retribuito, tant’è che per un periodo facevo tre lavori insieme».

Ma perché questa fretta, quest’ansia?

«Sentivo la necessità di trovare un luogo che fosse mio. Di essere autonoma, solida».

Credo che questa necessità sia una delle più grandi trazioni della giovinezza e una delle sue esperienze più difficili. Cercare un posto che ci appartenga e a cui sentiamo d’appartener­e, luogo fisico o mentale, è condizione umana comune e necessaria, ma riuscire

L’autrice di trentenne, racconta l’ossessione, comune alla sua generazion­e, di «trovare un posto nel mondo». Dialogo fra due giovani in corsa per il Premio Strega 2021

In questa ricerca perenne di un posto che fosse solo suo, la vita sentimenta­le immagino abbia avuto un ruolo. Primo bacio?

«Ragazzetto scelto a caso. Stava per cominciare la scuola, e mi

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy