LOUISA MAY ALCOTT
sono complessi, pieni di incertezze e piccoli dolori che i protagonisti, a volte, paiono arrecarsi volontariamente. Amare è una forma d’odio?
«L’idea di amore che ha Ava poggia sulla sua perenne necessità di sentirsi apprezzata, qualsiasi cosa faccia. Quando non succede, soffre. Quando soffre, passa all’attacco. Quando passa all’attacco, arreca volontariamente dolore. Non credo che l’amore sia una forma d’odio, credo piuttosto che Ava abbia una concezione sbagliata di questo sentimento».
C’è anche sottomissione, nelle due relazioni.
«Il New York Times ha una rubrica, si chiama Modern love. L’autore ha scritto che “se vogliamo la ricompensa dell’amore, dobbiamo sottometterci al mortificante calvario di essere conosciuti”. Ciò che voleva dire è che legandoci a una persona, questa vedrà lati di noi che non avremmo voluto vedesse mai nessuno. Ecco, più che di sottomissione serve arrendevolezza. Ma non è arrendevolezza al partner, è arrendevolezza al sentimento».
Non c’è modo di fuggire questa condizione di dipendenza che a volte può diventare dolorosa?
«Non credo. Molti fanno finta che questa dipendenza non esista, ma così non si arriva da nessuna parte, si soffre e basta. Bisogna solo prenderne atto e cercare di capire come e quanto gli altri ci influenzino. Sicuramente scegliere con attenzione di quali persone circondarci aiuta molto. Se il nostro destino è quello di dipendere da chi abbiamo accanto, allora sarebbe bene decidere prima da chi dipenderemo». Lei è troppo giovane per ricordare qualcosa degli anni del Conflitto Nordirlandese, che è parte di ciò di cui stiamo parlando adesso, però sento che per lei è una questione importante.
«Mio padre è cresciuto dall’altra parte del confine, ha vissuto tutto sulla sua pelle, e tanto mi basta per far sì che per me sia pure importante. È un trauma dell’intera nazione. Lo sarà per sempre».
Ci sono i rapporti di coppia, c’è il sesso, c’è l’omosessualità. C’è la solitudine, c’è differenza di classe, c’è la politica. In questo romanzo c’è tutto. Cosa racconterà in futuro?
«L’argomento in sé non mi importa. Nei miei romanzi trova posto perché le vicende avvengono nel mondo e il mondo, quindi, deve per forza entrarci, nelle vicende. Voglio concentrarmi sulle emozioni. Sui sentimenti. Gelosia, dolore, paura: il mondo è fatto anzitutto di questo, e di questo voglio scrivere. Del mondo primordiale nel contemporaneo».
Chi era Louisa May Alcott? Tutti la conosciamo come l’autrice di Piccole donne, best-seller per ragazze che ha attraversato quasi due secoli e numerosissime trasposizioni teatrali e cinematografiche, nonché come la gioviale zitella tornata a vivere con gli anziani genitori nella casa in cui era stato ambientato il romanzo a Concord, nel Massachusetts, dove morì a 55 anni. Eppure fu molto di più di questo. La lettura di alcune lettere, mai tradotte, e pubblicate ora dall’Orma Editore per la cura di Elena Vozzi, può essere l’occasione per ridare tridimensionalità a una donna di grande spessore intellettuale, a un’attivista per i diritti formidabile e coraggiosa, a una scrittrice niente affatto paga «della letteratura edificante» — così la definiva lei stessa — con cui si era guadagnata il successo.
La raccolta spazia dalle missive scambiate alla fine degli anni ‘40, periodo in cui viveva con la famiglia a Fruitlands, nell’esperimento comunitario dei cosiddetti trascendentalisti di cui facevano parte Ralph Waldo Emerson, Henry Thoreau, Margaret Fuller, agli anni ’80 quando Louisa May Alcott era tornata a stare coi genitori, lei stessa piuttosto acciaccata nel corpo.
A legare queste lettere una grande passione per la conoscenza, una lucida consapevolezza di aver ricevuto un’educazione eccezionale, perché ispirata a principi egualitari fra uomini e donne, fra bianchi e neri, e una ricerca indomita dell’autonomia, perché a Louisa May Alcott, sbarcata sedicenne e sola a Boston, era molto chiaro, come lo sarà in seguito a Virginia Woolf, che una donna per poter scrivere doveva guadagnarsi una forma di autosufficienza economica.
Sono commoventi le lettere indirizzate alla sorella Ann, nel periodo in cui Louisa viveva a Boston e, facendo i lavori più disparati, dal rammendo di vestiti all’insegnamento privato, si preoccupava di risparmiare i soldi per poter comprare uno scialle alla madre, un cappellino grazioso alla sorella Amy, una risma di carta per il padre. Gettano luce su una vita durissima, in cui l’aspirazione a diventare scrittrice veniva coltivata a costo di sacrifici costanti; eppure con quanta ironia e grazia Louisa sa trattare anche con gli editori, tutti uomini, che cominciano a pubblicare in riviste i suoi primi racconti, spesso usciti sotto lo pseudonimo maschile di A. M. Barnard.
Garbata ironia, ma anche una fiera dignità: la breve missiva con cui nel 1871 si rivolge a James T. Field rimette al suo posto il direttore della prestigiosa rivista Atlantic, che una decina di anni prima con fare paternalistico le aveva sconsigliato di scrivere e prestato quaranta dollari per
Femminista, alternativa (visse l’esperimento comunitario dei trascendentalisti), ironica La scrittrice di si svela nelle lettere a familiari, editori, amici. Rispondendo per le rime a chi prova a sminuirla