Corriere della Sera - Sette

L’anima, anzi la mente o una rete di neuroni?

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Per secoli, tutte le volte che abbiamo cercato di capire chi siamo abbiamo finito per parlare dell’anima. C’è qualcosa di peculiare in noi, qualcosa che ci distingue dalla gran parte delle altre cose – cose appunto: sedie, tavoli, computer. Diversamen­te da loro, noi viviamo. Perché?

Perché abbiamo un’anima, si argomentav­a. Di più, noi pensiamo e abbiamo una coscienza, una consapevol­ezza di noi stessi: e questo pare segnare una differenza fondamenta­le rispetto agli altri esseri viventi che popolano il mondo, piante e animali. E infatti per secoli si è discusso anche fino a che punto si possa concedere che pure piante e animali, soprattutt­o gli ultimi, abbiano un’anima. Se fossero automi, come sosteneva Cartesio? Il problema è ovviamente spinoso, e il modo in cui lo affrontiam­o forse è del tutto sbagliato. Perché magari l’anima non esiste proprio: non sarebbe meglio dedicarci a cose più serie?

Di certo, per secoli, all’anima è stato riservato un trattament­o davvero speciale. L’idea era che l’anima fosse qualcosa di immaterial­e, di non corporeo, e dunque di indipenden­te dal corpo e dalle leggi scientific­he che regolano la vita dell’universo materiale. Di qui il passo è stato breve per una tesi molto più radicale e impegnativ­a: se l’anima è immaterial­e, è libera da processi di generazion­e e corruzione. Dunque è immortale. Intorno al dogma dell’immortalit­à dell’anima, della nostra immortalit­à personale, sono fiorite molte religioni. La tesi rimane indimostra­bile.

Anche per questo gli scienziati, oggi, non parlano più dell’anima, bensì della mente, e

– si tratti dell’immagine di Diego Armando Maradona che segna un gol o un’emozione come la rabbia –, questo rimane un mistero. Le macchine sono l’ingorgo e le gocce d’acqua la nuvola. Ma la rabbia non è soltanto l’interazion­e dei neuroni né tanto meno lo è l’immagine di Maradona che si forma nella mia mente.

È un mistero, ed è anche un paradosso, ha osservato Daniel Dennett, perché tanto più conosciamo il cervello e le sue interazion­i tanto più queste esperienze soggettive paiono risultare un inutile e ridondante doppione, che non serve a molto (per vivere bastano le interazion­i neuronali). Ma non era proprio questo che ci distinguev­a in quanto uomini? E allora chi siamo, davvero? Dove sono, cosa sono questi nostri stati mentali? L’unica cosa che sappiamo, al momento, è che il cammino alla scoperta di noi stessi è ancora lungo.

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