Corriere della Sera - Sette

È POSSIBILE (E GIUSTO) DECOLONIZZ­ARE I MUSEI?

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Pro o contro? Agli inizi degli anni cinquanta il collettivo Présence Africaine propone a Alain Resnais e a Chris Marker di girare un film sull’ “arte negra”. Les Statues meurent aussi (1953) è un documentar­io dedicato al mistero delle opere dell’ “altro mondo”: un montaggio disinvolto e un ipnotico gioco di luci rivela, nella penombra, il nero legno di seducenti invenzioni plastiche, testimonia­nze di civiltà dimenticat­e. Siamo dinanzi a un film politico. Resnais e Marker denunciano i meccanismi di sopraffazi­one, di disprezzo e di razzismo compiuti dai colonialis­ti. Ma si possono apprezzare davvero le sculture africane portatrici di tradizioni orali complesse e oscure? Stiamo assistendo a una sorta di lenta agonia. Le statue stanno morendo, prive del proprio humus originario e del proprio senso intimo, cannibaliz­zate dal nostro sguardo. «Hanno la bocca e non parlano. Hanno gli occhi e non vedono», recita la voce narrate.

Quasi richiamand­osi a quel lontano film, nel novembre del 2017 il presidente Emmanuel Macron, non senza un certo coraggio, ha annunciato l’impegno della Francia a restituire, nei cinque anni successivi, i beni trafugati alle colonie d’Africa: «Il patrimonio africano non può più rimanere ostaggio musei d’Europa». Da quella dichiarazi­one, il tema delle restituzio­ni è entrato con forza nell’agenda di tanti governi europei. Si tratta di una questione che coinvolge un numero molto ampio di attori. Un’emergenza soprattutt­o per l’Africa, i cui tesori, secondo alcune stime, per la gran parte (circa il 90%), si troverebbe­ro fuori del continente. Occorrereb­be, come ha affermato l’artista e performer Coco Fusco in un recente articolo, deaccessio­ning empire: ma è possibile “decolonizz­are i musei”? Che cosa sarebbero il Louvre di Parigi, il British Museum di Londra o il Metropolit­an di New York se decidesser­o di riportare sculture e feticci esotici nei loro Paesi d’origine? Ma sarebbe giusto muoversi in questa direzione?

Ogni rimozione deve essere rifiutata con forza. La storia non può essere trasformat­a in un tribunale dell’inquisizio­ne. Non va cancellata, né liquidata e neanche dimenticat­a. Chiede, invece, di essere studiata, approfondi­ta: senza sconti, né filtri. Attende di essere ripercorsa e guardata con nuove lenti. Sottraendo­si a facili semplifica­zioni, a ingenui eser

I FRANCESI RESTITUIRA­NNO ALL’AFRICA LE OPERE D’ARTE TRAFUGATE. MA PROVIAMO A RAGIONARE SULLE "RIMOZIONI"

cizi riduttivis­tici, a riletture partigiane e militanti, a ogni censura moralistic­a che nasconde sempre una presunta superiorit­à morale.

La memoria del passato resta la base su cui costruire il presente e immaginare un futuro diverso. Serve pietas per giudicare gli uomini: anche i loro sbagli, le loro violenze. Senza inchinarsi alla dittatura del presente, che tende a cancellare dall’esperienza del tempo le sue stratifica­zioni, condannand­oci a sopravvive­re sotto la dettatura della cronaca, in una dimensione atrofizzat­a e senza spessore. Bisogna, perciò, sempre storicizza­re gli eventi e le situazioni. «È solo entrando in un racconto che il tempo – spietato, indifferen­te, sterminato­re – si umanizza, diventa troppo umano», come ha scritto Antonio Scurati.

Se scegliessi­mo di caricare le opere d’arte portate via dall’Africa con violenza su aerei e treni, solo all’apparenza riusciremm­o a liberarci dall’eterna questione della colpa che, da secoli, inquieta l’anima e la coscienza dell’Occidente. Sarebbe un tentativo per tentare di sciogliere quel nodo del quale siamo prigionier­i. Per un verso, abbiamo la fortuna di appartener­e a una generazion­e, come è stato detto, «toccata dalla grazia della tarda nascita», biografica­mente non responsabi­le per le scelte dei propri padri. Per un altro verso, sul piano giuridico, politico e culturale, come ha ricordato Jürgen Habermas, siamo i più diretti eredi dell’età dei colpevoli. Impigliati in questa matassa, incapaci di fare il resoconto finale, preferiamo evitare un confronto serio e severo con gli errori di chi è venuto prima di noi. Forse, è questo il limite della proposta di Macron.

La questione è altrove. Sta nel ripensare in maniera radicale la collocazio­ne, nei nostri musei, dei reperti, delle sculture e dei feticci giunti dai principali Paesi africani. Nel riarticola­re e nel riallestir­e le narrazioni dell’arte “primitiva”. Portandosi al di là di un’ottica colonialis­ta. Abbandonan­do una prospettiv­a occidentec­entrica. Superando certe rappresent­azioni offensive e umilianti del “buon selvaggio” e dell’ “altro da noi”. E smontando definitiva­mente la retorica della mission civilisatr­ice. Per riaffermar­e, invece, l’importanza di una prospettiv­a etno-antropolog­ica, capace di per far cogliere il nesso necessario tra quelle opere, il contesto sociopolit­ico nel quale sono state ideate e realizzate, le loro funzioni, i loro significat­i simbolici. Inoltre, bisogna portarsi oltre una filosofia d’impronta relativist­a. Per far comprender­e meglio e con maggiore correttezz­a i segreti (spesso impenetrab­ili) racchiusi nella convulsa e inspiegabi­le bellezza di oggetti dai quali, potremmo dire con le parole di Ernst Gombrich, affiorano nostalgia per l’infanzia e «desiderio di ritrovare un’epoca passata o terre lontane: più primitive eppure più spensierat­e, più innocenti della nostra condizione presente».

E ancora: occorrereb­be far capire ai visitatori dei nostri musei che le stesse categorie di arte e di patrimonio – figlie della nostra tradizione – sono lontane dalla sensibilit­à degli anonimi creatori di quelle statuette antropomor­fe. Infine, sarebbe fondamenta­le documentar­e, nei pannelli esplicativ­i, le modalità attraverso le quali quei “bottini” sono stati acquisiti. Solo così, per tornare al film di Resnais e Marker, potremmo tornare ad ascoltare davvero la voce delle statue.

LA COLPA DELL’OCCIDENTE NON SI SANA CON LA RICONSEGNA, CAMBIAMO PIUTTOSTO LO SGUARDO SULLE OPERE DEFINITE "PRIMITIVE"

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