IL SENSO DI MARIO DRAGHI PER LA COMPETENZA
Cosa significa «essere competenti»? (La conoscenza si dà per scontata...) Saper fare la domanda giusta, costruire consenso attorno alle proprie posizioni e tradurlo in atti concreti. Da Colao a Lamorgese, passando per Cingolani, Franco e Messa: i ministri “tecnici” ai raggi X
Lo dimostra il suo discorso in Parlamento dove non ha avuto timori nel definire l’euro irreversibile quando solo poche ore prima Matteo Salvini aveva detto il contrario. Ma lo racconta anche e soprattutto la composizione del governo.
In Italia molto spesso la competenza viene scambiata per semplice sapere. È un errore. La conoscenza è fondamentale quanto data per scontata. Lo è meno la capacità di costruire consenso attorno alle proprie posizioni e tradurlo in politiche e atti concreti. Sono così passate quasi sotto silenzio le indicazioni che per alcuni dicasteri chiave sono state fornite dal neopresidente del Consiglio.
Presi dai bilancini della politica (quanti a Forza Italia e quanti alla Lega, al Pd e 5 Stelle), gli attenti osservatori di quanto accade tra i vari colli romani hanno rischiato di perdersi la novità. Fa la differenza avere seduti allo stesso tavolo di Palazzo Chigi persone ormai da anni dedite alla politica, ma anche manager e scienziati, soprattutto donne e uomini abituati a “gestire”.
Scontato dirlo per Vittorio Colao e Roberto Cingolani. Il primo ha costruito il maggior gruppo telefonico al mondo, Vodafone; il secondo dal niente ha messo in piedi quell’Istituto italiano della tecnologia dal quale sono uscite start up e robot che il mondo ci invidia, e tutto grazie a quei 1700 cervelli che arrivano da 60 nazioni e hanno un’età media di 34 anni. Il primo si occuperà della transizione digitale, il secondo di quella ecologica.
Ma a ben vedere non sono i soli.
Basti pensare a Luciana Lamorgese o Cristina Messa. Anche qui, due persone che verrebbero definite tecniche. Come se quello che hanno fatto sinora non fosse stato profondamente politico nel senso migliore del termine: amministrare la cosa pubblica avendo in mente il bene dei cittadini combinando i diversi interessi.
Luciana Lamorgese, ministra dell’Interno già con il governo Conte due, aveva ricoperto l’incarico di prefetta in città importanti. L’ultima Milano, ma prima ancora Venezia. Un’esperienza che è emersa subito nel confronto con chi l’aveva preceduta, Matteo Salvini, ministro sicuramente più politico del governo
Un solo ministro, Enrico Giovannini, romano, rappresenta, in senso geografico, il centro del Paese. Tra i rimanenti 22, 16 sono del
Nord (tra i quali 8 lombardi e 4 veneti), mentre il Sud ne schiera sei: Di Maio, Lamorgese, Cingolani, Garofoli, Carfagna e Speranza.
Nel derby d’Italia
Milano batte Roma 4 a
1. Tolti due ministri che si sono fermati al diploma, Di Maio classico e Orlando scientifico, gli altri sono tutti laureati: 8 in Legge, 5 in Scienze politiche e 4 in Economia. L’età media, senza contare i 73 anni di Draghi, il più anziano premier ad arrivare a Palazzo Chigi, è di 53,7 anni; davanti ai 64 anni di quello di Monti, ma dietro ai 47,4 del Conte II docenza, in realtà un incarico profondamente di gestione, di organizzazione degli interessi, di combinazione delle aspirazioni di studenti e professori, ma anche del personale amministrativo e, perché no?, di un quartiere che grazie anche alla sua azione ha mutato in profondità il suo essere; appunto la Bicocca di Milano, passata da quartiere industriale a centro servizi. E ancora, si ricorda la vicepresidenza Messa del Cnr. E si dimentica che se non fosse diventata ministra, sarebbe diventata presidente di quello che rappresenta ancora il centro maggiore di spesa per la ricerca italiana. Grazie sicuramente agli studi ma anche all’essere medico ricoprendo (anche qui) un incarico di gestione come primario al San Gerardo di Monza.
Avere attorno al tavolo Lamorgese, Messa, Colao, Cingolani ma anche un altro tecnico come Daniele Franco significherà che sapranno fare quella cosa rara che è chiedere e poi ascoltare le risposte. E magari fare e farsi quelle domande utili a smontare teorie poco suffragate da fatti, più figlie di ideologie che di analisi della situazione. Non è un caso che nella casella di ministro dell’Economia ci sia proprio Franco. Di lui pochi sanno che la sua prima laurea è in Scienze politiche e solo successivamente, dal Cuoa di Padova alle università all’estero, affina la sua passione per l’economia e per il mondo produttivo e delle imprese. In molti ricordano il suo passaggio da Banca d’Italia alla Ragioneria generale dello Stato, chiamato dal governo guidato da Enrico Letta. E in tanti pensano che si tratti di una pura funzione contabile. Non è così. Quel tassello nella Pubblica amministrazione è il crocevia più importante delle decisioni nell’allocazione delle risorse. Basti pensare a quante volte quell’ufficio ha detto no a richieste, pressioni e forzature della politica. Per dire quei no si deve comprendere la logica dei numeri ma anche capire il perché si è arrivati in quel punto. Avere ascoltato le ragioni e i motivi. Ma infine maturare scelte che possono anche essere dannose per la carriera, come accadde al momento di tornare in Banca d’Italia perché poco gradito (per i suoi “no”) alla maggioranza gialloverde del Conte uno.
Fare domande, anzi fare la domanda giusta, meglio, ecco l’essenza del sapere e saper fare, ecco la vera competenza di chi deve prendere decisioni che riguardano organismi complessi. Chi ha avuto a che fare con Draghi sa che ogni volta che lo si incontra si sarà sottoposti a un fuoco di fila di domande. Sarà nata da questo la stima per Colao. L’aneddotica (che in questo caso sfiora la mitologia) racconta di quel taccuino nero che usava portare il manager ex McKinsey nel quale annotava le cose principali da fare o quello da chiarire nelle riunioni con i suoi manager. E chi ebbe la fortuna di vederlo notò come prima domanda: Ciao, come stai? Per la paura di dimenticarsi delle persone.
E provate a intervistare Cingolani. Uno degli ultimi che l’ha fatto, Stefano Lorenzetto per il Corriere, si è ritrovato il quaderno pieno di domande altro che risposte. «Il robot è più intelligente dell’uomo?», risposta di Cingolani: «Sappiamo cos’è l’intelligenza? È più intelligente Einstein, Picasso o Ronaldo?», e via chiedendo che per uno scienziato che si occupa di intelligenza artificiale è la norma. E per il quale il social è «parlare con cinque persone guardandole negli occhi».
Altro che mera competenza. Altrimenti che cosa ci farebbe un’avvocata come Lagarde a capo di una delle tre banche centrali più potenti al mondo? È la stessa persona che da capo del Fondo monetario internazionale nella laudatio a Draghi presso l’Atlantic Council a New York nel 2015 pronuncia quelle parole che, quattro anni dopo, faranno capire perché il neopresidente del Consiglio abbia visto proprio in un’avvocata la migliore candidata a prendere il suo posto: «Ciao Mario. Non ti preoccupare, non sono Jens Weidmann. Io sono tua amica».
L’aneddotica racconta del taccuino nero nel quale il manager ex McKinsey annotava le cose principali da fare e da chiarire. Chi riuscì a sbirciare, dichiarò che la prima domanda segnata era: ciao, come stai? (Per paura di dimenticarsi delle persone)